2.0 Shared diagnostic-therapeutic paths in the Sardinian territory in nephrology and dialysis, Oristano, June 11-13, 2024
DOI:
https://doi.org/10.33393/gcnd.2025.3549L’impiego dei calcio-mimetici alla luce delle Linee Guida K-DIGO
M. Cristina Mereu
Nefrologo ricercatore indipendente, Cagliari - Italy
Chronic Kidney Disease-Mineral Bone Disorder (CKDMB): una sindrome complessa con uno scenario in continua evoluzione. Le alterazioni del metabolismo minerale sono comuni nei pazienti con malattia renale cronica (CKD) e sono parte integrante di un complesso sistema definito CKD-MBD, caratterizzato da alterazioni biochimiche (Ca, P, PTH, vit. D, FGF23), alterazioni scheletriche (turnover, mineralizzazione e volume) e calcificazioni vascolari e dei tessuti molli, con conseguente incremento delle fratture da fragilità (FF), e della morbidità e della mortalità cardiovascolari. Numerosi studi epidemiologici evidenziano un aumento del rischio di frattura specialmente dell’anca, in tutti gli stadi di malattia (soprattutto G3a-G5), con progressione del rischio fratturativo lineare alla riduzione della funzione renale (eGFR), e nei pazienti in dialisi è 4-6 volte maggiore che nella popolazione di pari età e sesso. La fisiopatologia della fragilità scheletrica nei pazienti con CKD è complessa e sfaccettata a causa della simultanea presenza di fattori di rischio tradizionali della popolazione generale (età, postmenopausa, farmaco-indotta, malnutrizione, ecc.) e di molteplici fattori tipici dell’uremia. Recentemente, inoltre, tutta una serie di nuovi fattori di derivazione ossea, renale e/o sistemica (s-klotho, sclerostina, osteocalcina, activina, osteoprotegerina, ecc.), anche se con ruoli non ancora del tutto definiti, potrebbe interferire con il metabolismo minerale e il sistema scheletrico ed essere coinvolta anche in altre manifestazioni cliniche sistemiche che caratterizzano la malattia renale cronica. Pertanto, nei pazienti con CKD, insieme alle varie forme di osteodistrofia renale (ROD) (con riferimento solo alla classificazione istomorfometrica) riscontrabili nella CKD-MBD, è possibile la coesistenza con osteoporosi (OP). Alcuni Autori preferiscono le definizioni CKD-MBD e CKD-associated osteoporosis e/o Kidney associated FF. In considerazione della recente introduzione di nuovi farmaci per la terapia dell’OP e con lo scopo di risvegliare l’attenzione della comunità nefrologica su questo emergente problema, è stato pubblicato un recente European Consensus Statement per la diagnosi e il trattamento dell’osteoporosi nella CKD (stadio G3-5D).
I calcio-mimetici nella terapia dell’IPS (CKD5D secondo le Linee Guida KDIGO 2017): luci, ombre e necessità di cambiamenti
In queste ultime due decadi, grazie anche all’inserimento dei calcio-mimetici e a un progressivo miglioramento di tutto l’armamentario terapeutico, abbiamo assistito a un miglior controllo dei parametri biochimici nella gestione dell’IP, sulla base delle raccomandazioni suggerite dalle Linee Guida. In particolare, tra i calcio-mimetici, la formulazione e.v., etelcalcetide, si è dimostrata più efficace nel regolare i parametrici biochimici, nel ridurre la secrezione di PTH e dei biomarker del turnover osseo e nel ridurre FGF23. Gli studi “real-life” confermano la sicurezza e l’efficacia dell’etelcalcetide in tutti i gradi di severità dell’IPS nel lungo termine, con riduzione degli effetti gastroenterici e degli episodi di ipocalcemia rispetto al cinacalcet.
Nella rivisitazione delle Linee Guida KDIGO, le modifiche apportate per quanto riguarda la terapia dell’IPS rispetto alle precedenti Linee Guida del 2009 risultano molto modeste. Sicuramente questo perché le evidenze cliniche non permettono di fornire suggerimenti o chiare indicazioni su quale sia il trattamento di prima linea. Ma, comunque, considerato il differente meccanismo d’azione tra vit. D attiva e calcio-mimetici, non privo di complicanze, la scelta si dovrebbe basare sul buon senso: i calcio-mimetici dovrebbero essere i farmaci di prima scelta, in caso di ipercalcemia (o di calcemia medio-alta) e/o di fosforemia elevata, mentre la vit. D attiva o i suoi analoghi dovrebbero essere i farmaci di prima scelta in presenza di ipocalcemia, cosi come già sostenuto da un position paper. Invece, viene lasciata ampia libertà al nefrologo di impostare e/o di modulare la terapia sulla base del quadro biochimico del singolo paziente. Ma restano ancora molti quesiti aperti e domande senza risposta. Pertanto, in attesa delle prossime Linee Guida, un recente position paper fornisce indicazioni sul bilancio del calcio e sulla sua corretta assunzione, mentre, a livello europeo, la Società Spagnola di Nefrologia ha formulato le proprie Linee Guida e alcuni algoritmi terapeutici, impostati su differenti parametri biochimici, che potrebbero, al momento, essere molto utili nella pratica quotidiana.
Calcio-mimetici: oltre I’iperparatiroidismo secondario (IPS)
In considerazione del fatto che i recettori per il Ca (CaSR) sono presenti oltre che nell’osso in altri organi (cuore, vasi, ecc.), con la loro attivazione, si potrebbero avere benefici sia sull’osso che sulla salute cardiovascolare. Al momento mancano studi prospettici randomizzati che abbiano come obiettivi primari quelli di ridurre e/o di migliorare gli esiti clinici sia sull’osso che sul sistema CV.
SGLT2 inhibitor e nefro-protezione: il nuovo standard di cura nell’insufficienza renale cronica
Irene Capelli1,2, Daniele Vetrano1,2
1Department of Medical and Surgical Sciences (DIMEC), Alma Mater Studiorum - University of Bologna, Bologna - Italy
2Nephrology, Dialysis and Kidney Transplant Unit, IRCCS Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna, Bologna - Italy
La malattia renale cronica (CKD) è una patologia in ampio aumento a livello globale. Si stima infatti che nel 2017 circa 843,6 milioni di persone ne fossero affette, con un trend stimato nel 2040 di un aumento della mortalità del 41,5%. Tale trend è in linea con l’aumento della prevalenza di comorbidità come l’obesità e il diabete mellito di tipo 2, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo.
Un meccanismo patogenetico chiave della CKD è l’iperfiltrazione glomerulare, in particolare la cosiddetta iperfiltrazione in “single nephron”, dove la perdita di massa nefronica coincide con un aumento del tasso di filtrazione dei nefroni residui per preservare temporaneamente la funzione renale, innescando invece un meccanismo di danno renale progressivo.
Mentre, fino a qualche anno fa, l’unica arma farmacologica che agiva su questo meccanismo era rappresentata dagli inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAASi), che agiscono selettivamente sull’arteriola afferente provocandone la vasodilatazione e riducendo così la pressione intraglomerulare, una nuova classe di farmaci si è imposta nel panorama nefrologico, vale a dire gli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio 2 (SGLT-2i). Questi farmaci aumentano il carico di sodio alla macula densa, ripristinando il feedback tubuloglomerulare in un meccanismo adenosina-dipendente e provocando la contrazione dell’arteriola afferente.
Oltre a questo meccanismo prettamente emodinamico, numerosi studi hanno evidenziato molteplici altri effetti, come l’aumento dell’ematocrito, la riduzione del consumo di ossigeno a livello tubulare, la riduzione dell’infiammazione e il miglioramento del profilo metabolico delle cellule renali e cardiache. Diversi trial hanno stabilito l’efficacia e la sicurezza di questi farmaci in ambito sia cardiologico che nefrologico. In particolare, lo studio Credence, il DAPA-CKD e l’Empa-Kidney hanno dimostrato che tre molecole diverse, il canagliflozin, il dapagliflozin e l’empagliflozin, riducono significativamente gli outcome renali primari rispetto alla terapia con placebo.
Una recente metanalisi di tutti i trial registrativi sia nefrologici che cardiologici ha confermato e rafforzato le evidenze, dimostrando come questi farmaci migliorino gli outcome renali nei pazienti sia diabetici che non diabetici. Tale dato è stato confermato anche in pazienti con patologie glomerulari come l’IgA e, anche se in maniera meno marcata, nei pazienti portatori di trapianto di rene.
Recenti sottostudi dei trial clinici principali hanno evidenziato che la riduzione del rischio di danno renale terminale (ESRD) è tanto maggiore quanto più precocemente viene iniziata la terapia con valori di eGFR più conservati. Tale potenziale può essere spiegato non solo dall’azione intrinseca degli SGLT-2i, ma anche dal fatto che si sono dimostrati efficaci nel coadiuvare altre terapie nefro-protettive come i RAASi. La terapia con SGLT-2i in associazione con i RAASi sembra consentire una più sicura gestione di questi ultimi, riducendo il rischio di iperkaliemia e di danno renale acuto. Inoltre, usati anche in associazione con gli antagonisti del recettore dei mineralcorticoidi (MRA), sembrano potenziare l’azione antiproteinurica di questi ultimi, riducendo l’incidenza di iperkaliemia.
Stanno emergendo nuove terapie che possono coadiuvare e amplificare i benefici della terapia con SGLT-2i, in particolare i nuovi MRA non steroidei (nsMRA) e gli agonisti del recettore del GLP-1 (GLP1-RA). Recenti dati sulla terapia combinata di questi farmaci insieme ai RAASi mostrano un beneficio massimo in termini sia nefrologici che cardiologici.
Recenti analisi di cost-effectiveness hanno valutato l’impatto economico dell’utilizzo di queste molecole, dimostrando come, entro i 5 anni, si verifichi già un guadagno in termini di spesa sanitaria nel campo nefrologico, riducendo l’incidenza di pazienti in dialisi e di ospedalizzazione di carattere nefrologico.
Tuttavia, nonostante il largo beneficio con l’uso di questi farmaci per la maggior parte dei pazienti, esiste ancora una percentuale considerevole di pazienti che non risponde alla terapia. I fattori che sembrano essere associati a una migliore risposta terapeutica sono valori più alti di proteinuria e di eGFR al baseline e un BMI minore. Inoltre, la presenza di patologie microvascolari, come la retinopatia, sembra correlata a una migliore risposta terapeutica. Ulteriori studi sono necessari per chiarire meglio tali correlazioni.
In conclusione, le evidenze attualmente disponibili mostrano un’importante azione degli SGLT2i in termini di nefro-protezione sia nei pazienti diabetici che nei pazienti non diabetici e questi sono candidati a diventare rapidamente lo standard di cura dei pazienti affetti da malattia renale cronica, in associazione con le terapie convenzionali di blocco del sistema renina-angiotensina.
Modelli organizzativi indispensabili nella gestione della calcolosi renale
Marco Lombardi, Pamela Gallo, Selene Laudicina, Barbara Burberi
Ambulatorio Aziendale per la Calcolosi Urinaria, Day-Service Nefrologico SOC Firenze-2, Ospedale SM Annunziata, Firenze, ASL Toscana Centro - Italy
La calcolosi urinaria (CU) è definibile, per tante motivazioni acclarate, come la malattia dei paradossi e, perché no, dei fraintendimenti. Ritenuta in passato una malattia di prevalente competenza urologica, è risultato via via più evidente nel tempo che la CU presenta molteplici aspetti di interesse medico e che rappresenta spesso la manifestazione di una malattia sistemica. Diabete, obesità, sindrome metabolica, endocrinopatie, malattie intestinali e osteoporosi sono solo alcuni degli scenari patologici associati alla CU e con caratteristiche e complicanze tra cui spiccano le malattie cardiovascolari e un rischio notevole di sviluppare la malattia renale cronica.
Inoltre si stima che sino al 15% dei casi possa essere dovuto a un’anomalia genetica (ossalurie primitive, cistinuria, tubulopatie primitive, xantinuria, rachitismi, anomalie nel metabolismo della vit. D o dei metalli) o essere secondario ad anomalie anatomiche renali e della via urinaria (CAKUT, patologie cistiche e rene con midollare a spugna).
Considerato che il paziente giunge all’osservazione clinica più frequentemente in occasione della colica renale, la gestione della CU è spesso limitata alla semplice soluzione della sua più tangibile complicanza, vale a dire l’ostruzione, piuttosto che essere mirata all’inquadramento eziopatogenetico. Così, una patologia meritevole di presa in carico multidisciplinare resta ancora troppo spesso curata con un approccio mirato alla limitata risoluzione della sintomatologia acuta piuttosto che alla prevenzione delle recidive e alla risoluzione dei fattori predisponenti.
In ambito nefrologico è ancora poco diffuso l’interesse verso questa patologia, tranne in rari santuari che potrebbero col senno del poi essere definiti orti privati, eleganti, raffinati e coltissimi ma pur sempre troppo privati e così, ancora oggi, non abbiamo paura di essere smentiti quando si scrive che la percentuale dei nefrologi veramente abili a curare a 360° questa complessa e multifattoriale patologia non arriva al 5%. Gli ambulatori e i centri per questa patologia sono rari sul territorio nazionale e, rispetto alla prevalenza della patologia, largamente insufficienti.
Da queste riflessioni sull’adeguata presa in carico della CU ha progressivamente preso forma negli anni il nostro modello organizzativo.
L’ambulatorio nefrologico aziendale è multidisciplinare, con infermieri appositamente addestrati, endocrinologi ed endocrino-chirurghi, radiologi, chimici-clinici di laboratorio, biologi e genetisti, dietisti, medici d’urgenza, medici di medicina generale e naturalmente urologi. Partito relativamente recentemente, nel 2017, è stato definito nel 2023 in un PDTA aziendale disegnato per formare una rete attorno al paziente, con il molteplice obiettivo di ridurre la frequenza delle recidive e delle complicanze dovute alla CU e i costi diretti e indiretti legati a una patologia così prevalente nella popolazione.
Abbiamo ritenuto indispensabile che il gruppo multidisciplinare avesse una guida nefrologica, uno specialista con competenze specifiche e con un’ottica mirata alla prevenzione. Il PDTA definisce la presa in carico multidisciplinare specificando i ruoli dei vari specialisti e delle figure sanitarie e descrive gli esami necessari e le modalità di esecuzione (doppia raccolta delle 24 ore in contenitori con reagenti diversi corredata da un diario minzionale e dietetico su appositi form e raccolta di un campione urinario dopo un digiuno prolungato o dopo privazioni o carichi di sostanze).
Gli esami vengono poi valutati ed elaborati attraverso specifiche formule per ottenere tutte le informazioni utili per inquadrare correttamente la natura della calcolosi (handling tubulare dei fosfati, escrezioni frazionali, ecc.).
Questo modello che stiamo usando e implementando dal 2017 e che si basa su un’esperienza più che trentennale sul campo su pazienti con CU ci sta dando soddisfazioni per i risultati che stiamo conseguendo e osservando sia in rapporto alla diagnostica non solo puramente dismetabolica ma anche genetica che dal punto di vista della riuscita terapeutica, quando il paziente è aderente alle indicazioni dietetico-idropiniche e terapeutiche con vari farmaci (anche se ancora molti sono off-label) e con gli integratori e le acque particolari: molto sta nella preparazione e nella credibilità di tutto il personale curante.
La malattia di Fabry: dalla diagnosi alla gestione clinica
Vincenzo Antonio Panuccio1,2, Francesco Marino1, Dario Pazzano1, Rocco Tripepi2, Sabrina Mezzatesta2, Anna Mudonihttps://orcid.org/0000-0001-6122-80823, Francesco Logias4
1U.O.C. di Nefrologia, Dialisi abilitata al Trapianto di Rene, Reggio Calabria - Italy
2Istituto di Fisiologia Clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Reggio Calabria - Italy
3U.O. Nefrologia e Dialisi, Pia Fondazione di Culto e religione, Azienda Ospedaliera Cardinale G. Panico, Tricase (LE) - Italy
4ASL Ogliastra, Lanusei (OG) - Italy
Introduzione: La malattia di Fabry è rara, eredo-familiare, X-linked. Nel caso di trasmissione paterna, la probabilità di malattia per i figli è del 25% e raddoppia quando è la madre a essere portatrice. È multiorgano e a lenta progressione e spesso porta a malattia renale avanzata, cardiomiopatia ed eventi cardiovascolari.
È legata all’assenza o alla deficienza dell’enzima alfa-galattosidasi A, che codifica per il gene GLA. Questo enzima, presente nei lisosomi, scinde la globotriaosylceramide (Gb3). La deficienza dell’enzima con deposizione progressiva di GB3 in tutti gli organi e accumulo endoteliale di glicosfingolipidi è responsabile delle anomalie dei vari organi. Questo processo inizia precocemente e, se non trattato, può portare a insufficienza multiorgano e a morte prematura.
Sono note circa 900 mutazioni del gene GLA e di queste il 74% è di tipo puntiforme; la più frequente interessa la sostituzione nel braccio lungo del cromosoma X in posizione A143T di un nucleotide di adenina con la timina con conseguente ridotta attività dell’alfa-galattosidasi e accumulo di glicosfingolipidi (in particolare GB3 e glicoproteine).
La correlazione tra genotipo e fenotipo non è sempre presente, in quanto il fenotipo può essere interessato da fattori genetici e ambientali. Nel sesso femminile l’inattivazione di un cromosoma X spesso porta al fenomeno della lionizzazione e al relativo mosaicismo (Fig. 1), vale a dire allo spegnimento random di uno dei cromosomi X nelle diverse cellule dell’organismo impattando sul fenotipo e sulla storia naturale della malattia.
FIGURA 1 -. Lionizzazione e mosaicismo.
Dati di registro mostrano come le complicanze cardiovascolari e renali siano associate all’età del paziente, insorgano precocemente e aumentino esponenzialmente con l’avanzare dell’età. Nelle donne il fenomeno è tardivo e spostato di almeno 10 anni in avanti, con un’aspettativa di vita superiore rispetto ai maschi.
Epidemiologia: La distribuzione è pan-etnica e la prevalenza è compresa tra uno ogni 8.500 fino a oltre 100.000 soggetti ed è sesso dipendente; nell’uomo dovrebbe essere di 1 ogni 40.000 mentre nelle donne il dato non è certo e dipende dal tipo di manifestazione. Nell’uomo è più frequente il tipo classico, mentre nella donna è più comune un inizio ritardato (late-onset).
La diagnosi della forma classica avviene in genere in ambito nefrologico per le complicanze renali, anche se i sintomi gastrointestinali si manifestano nelle fasi iniziali (dolore, diarrea e nausea). Il sistema nervoso è interessato, con la comparsa di acroparestesie, crisi di dolore e febbre e alterazioni della sudorazione, fino allo stroke. Anche la sfera emotiva è coinvolta, con ansia e depressione che possono sfociare nel suicidio.
A livello cardiaco, la deposizione di GB3 si manifesta con ipertrofia, prevalentemente del setto, e con la conseguente disfunzione diastolica e le alterazioni del ritmo.
Nel rene la deposizione di glicolipidi va dai podociti a livello mesangiale fino anche a livello tubulare con fibrosi interstiziale e anche nelle cellule endoteliali dei capillari peri-tubulari, che si traducono in una sclerosi glomerulare segmentaria fino a un interessamento globale (Fig. 2).
FIGURA 2 -. Deposizione a livello dei podociti – Glomerulosclerosi segmentaria – Glomerulosclerosi globale.
A livello dell’occhio la presenza della cornea verticillata dovrebbe sempre far sospettare la malattia di Fabry (Fig. 3).
FIGURA 3 -. Cornea verticillata.
Diagnosi: La diagnosi è spesso tardiva e difficile per interessamento multiorgano non contemporaneo. L’interessamento del sistema nervoso è precoce con acroparestesie. La malattia renale e la compromissione cardiaca sono più tardive insieme a complicanze più gravi a carico del sistema nervoso.
Il livello di GL-3 misurato in campioni di sangue e di urina (occasionalmente in campioni bioptici) e l’eliminazione di GL-3 da parte di vari tipi di cellule e tessuti è stato valutato come end-point in studi clinici sull’ERT (enzyme replacement therapy), nonché utilizzato come biomarcatore nel monitoraggio dei pazienti con malattia di Fabry. Di recente, lyso-GL-3 (globotriaosilsfingosina), una forma deacilata di GL-3, si è dimostrata più sensibile e potenzialmente correlata alla gravità della malattia di Fabry.
Terapia: La terapia della malattia di Fabry è di tipo sostitutivo enzimatico per l’enzima alfa-galattosidasi. Esistono 2 forme: alfa- e beta-agalsidasi. L’agalsidasi alfa è la proteina α-Gal A umana prodotta con tecniche di ingegneria genetica in linee cellulari umane, trascrizione in situ ed espressione della proteina endogena, mentre l’agalsidasi beta è una forma ricombinante della α-Gal A umana ed è prodotta mediante tecnologia del DNA ricombinante. La terapia sostitutiva impatta positivamente sulla funzione renale e sulla comparsa delle complicanze.
Di recente si sta facendo ricorso alla terapia “chaperonica”, piccole molecole che si legano a siti specifici degli enzimi alterati, stabilizzandone la conformazione ed evitandone la cattura da parte del sistema di degradazione cellulare, il proteosoma.
Conclusioni: La diagnosi di malattia di Fabry richiede un’attenta valutazione del paziente e dell’anamnesi patologica e familiare e, nei giovani con nefropatia con eziologia incerta, il test per la malattia di Fabry andrebbe eseguito routinariamente cosi come nei donatori viventi.
Per le sue peculiarità, la malattia di Fabry richiede un approccio multidisciplinare.
Il ruolo della dieta con contenuto proteico controllato a predominanza vegetale nella gestione della MRC
Annalisa Noce1,2, Manuela Di Lauro1, Giulia Marrone1, Anna Mudonihttps://orcid.org/0000-0001-6122-80823, Salvatore Mancuso4, Francesco Logias5
1Dipartimento di Medicina dei Sistemi, Università di Roma Tor Vergata, Roma - Italy
2UOSD Nefrologia e Dialisi, Policlinico Tor Vergata, Roma - Italy
3U.O. Pia Fondazione di Culto e religione, Azienda Ospedaliera Cardinale G. Panico, Tricase (LE) - Italy
4Centro Emodialisi Mazarese, Mazara del Vallo (TP) - Italy
5ASL Ogliastra, Lanusei (OG) - Italy
La gestione del complesso quadro clinico del paziente affetto da malattia renale cronica (MRC) richiede sostanziali costi a carico del Sistema Sanitario Nazionale. Infatti, un paziente con MRC comporta un enorme consumo di risorse economiche, che aumenta significativamente con la progressione della malattia e in presenza di comorbidità. Tra queste risorse economiche rientrano i costi diretti, vale a dire i costi di gestione della MRC stessa, nelle fasi di prevenzione, diagnosi e trattamento del paziente (come farmaci, visite mediche, esami di laboratorio, diagnostica strumentale, trattamenti dialitici, ospedalizzazione, ecc.), e quelli indiretti, che si riferiscono alla minore produttività del paziente e dei caregiver. In questo contesto, le terapie nutrizionali con contenuto proteico controllato svolgono un ruolo chiave non solo nel ridurre la mortalità dei pazienti affetti da MRC ma anche nel migliorare la loro qualità di vita, abbattendo i costi sanitari necessari per la loro gestione.
Sulla base delle attuali Linee Guida “Kidney Disease: Improving Global Outcomes (KDIGO)” per la valutazione e il management clinico della MRC, le terapie nutrizionali con contenuto proteico controllato devono essere caratterizzate da: (i) un corretto apporto proteico, compreso tra 0,3-0,8 g/Kg di peso corporeo ideale al giorno, da adattare in base allo stadio della MRC, con la supplementazione o meno di amminoacidi essenziali e di chetoanaloghi; (ii) un adeguato apporto calorico, compreso tra 25-35 Kcal/Kg di peso corporeo ideale al giorno, da adattare in base all’età, al sesso, alla presenza di comorbidità e al grado di attività fisica quotidiana; (iii) un corretto apporto di sodio, potassio e fosforo, da modulare in base al quadro clinico del paziente.
Negli ultimi anni, si sta ponendo sempre più attenzione non solo sull’efficacia delle terapie nutrizionali nella gestione della MRC, ma anche sulla loro “sostenibilità” ambientale. Le attuali indicazioni nutrizionali standard, infatti, stanno virando sempre di più verso stili di vita più sostenibili, promuovendo terapie nutrizionali con contenuto proteico controllato caratterizzate da un più largo consumo di alimenti di origine vegetale. In questa prospettiva, tali tipologie di diete non offrono importanti benefici solo per il paziente stesso, ma anche per l’ambiente. Nel 2015, l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) ha deciso di adottare 17 Obiettivi di “Sviluppo Sostenibile” che fanno parte della cosiddetta “Agenda 2030”. Si tratta di una vera e propria chiamata all’azione che impegna tutti i Paesi membri a raggiungere una serie di obiettivi entro il 2030, che hanno come priorità il benessere della persona e la tutela del pianeta. L’implementazione di terapie nutrizionali che promuovono il consumo di alimenti di origine vegetale, come la dieta Mediterranea (Med Ren Diet), la Vegan diet e la Plant-dominant low-protein diet (PLADO-LPD), supporta pienamente questi obiettivi. Tali terapie nutrizionali apportano numerosi benefici per il paziente con MRC e, allo stesso tempo, consentono di risparmiare importanti risorse ambientali e di ridurre le emissioni di gas serra (Fig. 4).
Nello specifico, le terapie nutrizionali con contenuto proteico controllato a predominanza di alimenti di origine vegetale: (i) sono caratterizzate da un basso carico acido, il quale consente una migliore gestione dell’acidosi metabolica con la conseguente preservazione delle masse muscolari; (ii) esercitano un effetto benefico mediante la riduzione della pressione intraglomerulare, vasocostringendo l’arteriola afferente, consentendo il mantenimento della funzione renale residua e procrastinando la necessità della terapia renale sostitutiva; (iii) consentono un miglior controllo dei valori di azotemia; (iv) comportano una minore produzione di trimetilammina-N-ossido (TMAO), responsabile tra l’altro della fibrosi renale; (v) consentono una riduzione dello stato infiammatorio e dello stress ossidativo, grazie all’apporto di numerosi composti naturali bioattivi di derivazione vegetale; (vi) apportano un’ottimale quota di fibra alimentare, che consente di modulare positivamente la composizione del microbiota intestinale.
Per quanto illustrato, somministrare terapie nutrizionali con contenuto proteico controllato a predominanza di alimenti di origine vegetale può contribuire non solo al miglioramento dello stato di salute dei pazienti affetti da MRC e a ridurre le comorbidità correlate alla stessa MRC, ma anche alla riduzione dell’impatto ambientale. Si tratta, infatti, di terapie nutrizionali che si adattano perfettamente alle esigenze di un mondo sempre più orientato alla sostenibilità.
FIGURA 4 -. Effetti benefici e sostenibilità ambientale delle terapie nutrizionali con contenuto proteico controllato a predominanza di alimenti di origine vegetale nel paziente affetto da malattia renale cronica (MRC).
Modelli organizzativi indispensabili nella gestione della terapia nutrizionale per i pazienti in pre-dialisi
Giulia Marrone1, Annalisa Noce1,2, Anna Mudonihttps://orcid.org/0000-0001-6122-80823, Salvatore Mancuso4, Francesco Logias5
1Dipartimento di Medicina dei Sistemi, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Tor Vergata, Roma - Italy
2UOSD Nefrologia e Dialisi, Policlinico Tor Vergata, Roma - Italy
3U.O. Pia Fondazione di Culto e religione, Azienda Ospedaliera Cardinale G. Panico, Tricase (LE) - Italy
4Centro Emodialisi Mazarese, Mazara del Vallo (TP) - Italy
5ASL Ogliastra, Lanusei (OG) - Italy
La malattia renale cronica (MRC) ha un impatto significativo sui costi sanitari. Infatti, essa rappresenta una delle principali sfide economiche per i sistemi sanitari a livello globale. Il burdening dei costi sanitari derivanti dalla MRC è attribuibile a differenti fattori: i) alto tasso di ospedalizzazioni, poiché i pazienti con MRC spesso necessitano di ricoveri frequenti per complicanze, come infezioni ed episodi di insufficienza renale acuta; ii) costi legati alla terapia dialitica, infatti le spese annuali per la gestione del paziente emodializzato ammontano a circa 43.000 euro, mentre, per la dialisi peritoneale, ammontano a 30.000 euro; iii) gestione delle comorbidità, in quanto i pazienti con MRC spesso presentano altre patologie concomitanti, come la malattia cardiovascolare, il diabete mellito e l’ipertensione arteriosa, che richiedono una gestione multispecialistica del paziente; iv) costi sociali, vale a dire i costi indiretti causati dalla perdita di produttività lavorativa dei pazienti e dall’assistenza da parte dei caregiver. Pertanto, investimenti nella prevenzione, nella diagnosi precoce e nella gestione ottimale della MRC potrebbero contribuire a ridurre il suo burdening economico.
In termini pratici, l’approccio migliore per la prevenzione della MRC è rappresentato dalla sua diagnosi precoce e dall’adozione di uno stile di vita salutare associato a sane abitudini alimentari.
Le nuove Linee Guida KDIGO 2024 affermano che, per prevenire l’insorgenza della MRC, è fondamentale istruire la popolazione a seguire un’alimentazione con un tenore elevato di proteine di origine vegetale rispetto a quelle di origine animale, così come bisognerebbe ridurre significativamente il consumo di prodotti industriali e ultra-processati.
Un altro punto chiave delle Linee Guida 2024 è rappresentato dalla raccomandazione (grado 2C), per i pazienti affetti da MRC stadio G3-G5, a seguire un apporto proteico di 0,8 g di proteine/Kg di peso corporeo/die. Nei pazienti che sono metabolicamente stabili e che sono intenzionati a seguire un piano alimentare è possibile prescrivere diete con un contenuto proteico di 0,3-0,4 g di proteine/Kg di peso corporeo/die supplementate con chetoanaloghi oppure la tradizionale dieta con 0,6 g di proteine/Kg di peso corporeo/die. Tali regimi nutrizionali devono essere periodicamente monitorati tramite counselling nutrizionale da un dietista/nutrizionista esperto nella gestione della MRC. Con tali presupposti, il tradizionale piano nutrizionale basato esclusivamente sulla funzione renale residua non è sufficiente a garantire una buona aderenza alle prescrizioni dietetiche. Al contrario, la chiave per instaurare un valido percorso nutrizionale con il paziente prevede di affrontare una serie di tappe al fine di far comprendere al paziente che deve partecipare attivamente alla gestione della sua patologia. Tra le “tappe” fondamentali di tale processo, è necessario da parte del professionista sanitario spiegare perché è necessario fare alcune scelte alimentari.
Oltre alla gestione nutrizionale e alla valutazione del grado di aderenza alla terapia nutrizionale, all’interno delle ultime Linee Guida KDIGO 2024, è stato inserito e ben dettagliato il ruolo dello stile di vita e, in particolare, dell’attività fisica adattata. Quest’ultima dovrebbe essere praticata per almeno 150 minuti a settimana, secondo il grado di tolleranza fisica e cardiovascolare del paziente (Fig. 5).
Tra i test che permettono di valutare il grado di performance fisica, è possibile eseguire ambulatorialmente dei semplici esercizi finalizzati alla valutazione della funzionalità degli arti inferiori tramite lo “short physical performace battery” che comprende tre prove consecutive tra cui la valutazione dell’equilibrio, il test del cammino di 4 metri e il sit to stand.
In conclusione, la malattia renale cronica (MRC) rappresenta una sfida significativa per i sistemi sanitari, rappresentando di fatto, secondo le proiezioni, la quarta causa di morte entro il 2040 a livello globale. Il suo impatto rilevante sia sui costi diretti (ospedalizzazioni, trattamenti dialitici, gestione delle comorbidità) che sui costi indiretti (perdita di produttività e supporto da parte dei caregiver) contribuisce significativamente al burdening dei costi sanitari ad essa associati.
La gestione della MRC non può pertanto limitarsi alla sola terapia farmacologica, ma deve includere un approccio multidisciplinare che coinvolga il paziente in un percorso di consapevolezza e partecipazione attiva alla gestione della propria salute.
La combinazione di strategie preventive, il monitoraggio nutrizionale adeguato e l’incoraggiamento a seguire uno stile di vita attivo costituiscono la chiave per contenere i costi legati alla MRC e per migliorare la qualità della vita dei pazienti.
FIGURA 5 -. Effetto sinergico della terapia nutrizionale associata ad un piano di attività fisica adattata.
Modelli organizzativi per la gestione degli accessi vascolari per emodialisi
Riccardo Marras
Nefrologo interventista presso UOC di Nefrologia e Dialisi ASL 5 Oristano - Italy
L’attività di allestimento e cura dell’accesso vascolare può essere approcciata attraverso diversi modelli organizzativi che coinvolgono nefrologi, chirurghi, radiologi interventisti o altri specialisti.
Il nefrologo riveste un ruolo centrale nello scegliere, nel programmare e nel realizzare l’accesso vascolare in emodialisi. Numerose evidenze di letteratura dimostrano infatti che i migliori risultati, in termini sia di qualità che di durata dell’accesso, vengono raggiunti nei centri dove l’attività del nefrologo, come supervisore od operatore, è diretta o preponderante.
Per ottimizzare i risultati dell’accesso vascolare è necessario uno stretto coordinamento delle cure tra nefrologi, chirurghi, interventisti, personale di dialisi e paziente.
I principali modelli organizzativi sono 3.
Modello nefrologico
Il nefrologo è l’unico esperto e l’unico operatore in ambito di accessi vascolari con una risposta sicuramente rapida e commisurata al singolo centro dialisi.
Un’organizzazione del genere mostra i propri limiti nel momento più importante e delicato: la complicanza. Le conoscenze specialistiche, la disponibilità di materiali e apparecchi in continuo progresso tecnologico e le necessità di aggiornamento specialistico costante spiegano facilmente i limiti evidenti di questo modello “troppo incentrato” su un’unica figura professionale che non può possedere una conoscenza e un’abilità multispecialistiche a 360 gradi che vanno oltre il proprio campo.
Modello polispecialistico
Il nefrologo responsabile della terapia dialitica delega ad altri specialisti il confezionamento e la cura dell’accesso vascolare.
Gli specialisti coinvolti sono il chirurgo vascolare e il radiologo interventista, ma con un ruolo diverso rispetto al modello precedente.
Quando il paziente presenta un problema, si rivolge in prima istanza al nefrologo che, dopo aver messo a fuoco il problema, delega allo specialista di competenza la risoluzione.
Apparentemente è un modello ottimale ma il risultato è che il nefrologo, colui che gestisce l’accesso, finisce per essere escluso dall’iter risolutivo e decisionale che condurrà alla confezione/riparazione dell’accesso. Le persone direttamente coinvolte non conoscono cosa ne sarà del loro operato dopo il confezionamento.
Modello ibrido
Il regista è il nefrologo che deve avere le conoscenze sull’accesso vascolare e che deve accertarsi che siano condivise e che si formi una cultura comune tra i vari specialisti operanti all’interno dello stesso gruppo.
Il radiologo interventista o il chirurgo vascolare devono avere una conoscenza diretta dell’utilizzo dei vari accessi vascolari (è fondamentale per queste figure vedere ciò che avviene in sala dialisi).
Gli infermieri del centro dialisi per tre volte a settimana esaminano l’accesso, lo utilizzano e per primi ne valutano difficoltà ed efficienza. Per quanto loro non prendano parte direttamente alle fasi di progettazione, confezionamento e/o trattamento chirurgico/endovascolare, non è immaginabile dare corso a una buona gestione dell’accesso senza il loro totale coinvolgimento.
Una soluzione efficace per affrontare un argomento tanto delicato e complesso è la creazione di un Vascular Access Team, vale a dire un team multidisciplinare e multiprofessionale la cui attività ruota attorno all’accesso vascolare per emodialisi.
Al centro non c’è più una sola figura professionale ma c’è un organismo vivo che garantisce al paziente nefropatico un percorso assistenziale a 360 gradi, molto prima dell’allestimento dell’accesso vascolare, la realizzazione di un accesso vascolare (FAV, FAP, CVC) quanto più vicino possibile a quello ideale e di massimizzare le percentuali di successo a breve e a lungo termine e il monitoraggio degli accessi vascolari.
FIGURA 6 -. Modello point to point con connessione diretta fra due poli e dissipazione di energie ed esperienze contrapposto al Modello Hub and Spoke con referenza hub e presenza di un vascular access team.
Il team è formato da uno o più nefrologi interventisti, da nefrologi clinici, da infermieri di dialisi dedicati agli accessi vascolari, da un chirurgo vascolare e da un radiologo interventista.
Al coordinamento c’è il nefrologo interventista.
In caso di malfunzionamento di una fistola, il nefrologo interventista mette in atto un lavoro di squadra per concordare l’iter diagnostico-terapeutico, dall’ecografia all’eco-color-Doppler e dalla TC dei distretti venosi centrali fino all’esame flebografico, per valutare le necessità: procedere alla revisione chirurgica dell’accesso oppure eseguire una revisione endovascolare.
Alla stessa figura è generalmente devoluta l’organizzazione di sedute operatorie, naturalmente in collaborazione con gli altri specialisti e con il personale non medico dedicato; ciò rappresenta lo scenario ideale per il raggiungimento degli obiettivi sia dei pazienti che degli operatori.
Alla luce di questa realtà, il modello Hub&Spoke (Fig. 6) potrebbe essere una soluzione reale dal punto di vista organizzativo; esso prevede l’esistenza di centri principali “di riferimento” (Hub) e di centri periferici (Spoke), dove l’attività chirurgica è minima o assente. Tali centri afferiscono come centri satelliti (Spoke) e collaborano con il polo nefrologico principale (Hub), dove è presente il Vascular Access Team, che accoglie tutti i pazienti con complicanze degli accessi vascolari.
Il team degli accessi vascolari è il riferimento di tutto il bacino di utenza del territorio, dove si trovano i centri Spoke, i quali dovranno garantire un orientamento diagnostico almeno iniziale sulla problematica intercorsa.
Tossine uremiche: cosa sappiamo?
Anna Mudonihttps://orcid.org/0000-0001-6122-80821, Annalisa Noce2,3, Giulia Marrone2, Vincenzo Antonio Panuccio4,5, Massimo Belluardo6, Salvatore Mancuso7, Michelangelo Eroli8, Pina Meloni9, Francesco Logias10
1U.O. Nefrologia e Dialisi, Pia Fondazione di Culto e religione, Azienda Ospedaliera Cardinale G. Panico, Tricase (LE) - Italy
2Dipartimento di Medicina dei Sistemi, Università degli Studi di Roma Tor Vergata - Italy
3UOSD Nefrologia e Dialisi, Policlinico Tor Vergata, Roma - Italy
4U.O.C. di Nefrologia, Dialisi abilitata al Trapianto di Rene, Reggio Calabria - Italy
5Istituto di Fisiologia Clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Reggio Calabria - Italy
6UOC Nefrologia e Dialisi ASL Ogliastra Lanusei - Italy
7Centro Emodialisi Mazarese, Mazara del Vallo (TP) - Italy
8UOC di Nefrologia e Dialisi Azienda ospedaliera Santa Maria Terni - Italy
9Cardiologia Territoriale ASL Nuoro - Italy
10ASL Ogliastra, Lanusei (OG) - Italy
È noto che la malattia renale cronica (MRC) è la causa di morte in più rapida crescita in tutto il mondo. L’aumento multifattoriale della mortalità è correlato alla sindrome uremica, vale a dire a una progressiva disfunzione renale con conseguente deterioramento delle molteplici funzioni fisiologiche e biochimiche degli organi, attribuito proprio alla ritenzione di un’ampia gamma di soluti, normalmente escreti con le urine.
I livelli di sostanze di scarto aumentano con la diminuzione della funzionalità renale; le tossine uremiche sono metaboliti generati dall’assunzione di cibo e la loro escrezione avviene attraverso la filtrazione glomerulare o il trasporto attivo da parte delle cellule epiteliali prossimali renali. Quindi la ritenzione di tossine uremiche non è dovuta solo a una ridotta velocità della filtrazione glomerulare, ma anche al declino della funzionalità del tubulo prossimale. Il numero e l’identificazione delle tossine uremiche è in costante espansione grazie alle nuove tecnologie.
L’European Uremic Solute Workgroup (EUTox), composto da membri accademici e industriali, si occupa dell’identificazione e della caratterizzazione di tossine sconosciute al fine di migliorare gli approcci terapeutici del paziente con MRC.
EUTox ha pubblicato un elenco di soluti e ha classificato le tossine uremiche in tre categorie in base alle loro caratteristiche fisico-chimiche:
- 1)piccole molecole idrofile (< 500 Da), come urea e creatinina, che penetrano facilmente dalla barriera glomerulare e che vengono eliminate;
- 2)molecole medie (> 500 Da), come β2-microglobulina, FGF23 e le citochine pro-infiammatorie IL-1β, IL-6;
- 3)tossine uremiche legate alle proteine (PBUT), la cui tossicità può essere esercitata dalla frazione libera o dalla concentrazione totale di questi soluti e che vengono scarsamente eliminate con le metodiche dialitiche.
Nel dicembre 2021, Rosner et al. hanno suggerito una nuova classificazione delle tossine uremiche in sei categorie: piccole molecole legate alle proteine (< 500 Da), piccole molecole solubili in acqua (< 500 Da), molecole piccole-medie (500-15.000 Da), molecole medio-medie (> 15.000-25.000 Da), molecole grandi-medie (> 25.000-58.000 Da) e molecole grandi (> 58.000 Da).
Questa classificazione, non ancora convalidata, è interessante perché include le caratteristiche fisico-chimiche delle tossine e correla la sintomatologia clinica con gli effetti sui vari organi e apparati.
La Tabella 1 illustra gli effetti negativi della sindrome uremica su vari organi e apparati e sulle vie metaboliche.
I pazienti con malattia renale cronica (MRC) hanno un rischio aumentato di malattie cardiovascolari (MCV) e un aumento di eventi cardiovascolari con il progredire della stessa MRC. Oltre ai fattori di rischio tradizionali per le MCV (ipertensione, età avanzata, dislipidemia, diabete mellito, sesso maschile, fumo, elevato indice di massa corporea, ecc.), i pazienti con MRC presentano fattori di rischio specifici come sovraccarico di volume, malnutrizione, anemia, disturbi del metabolismo osseo e minerale, stress ossidativo e infiammazione e l’accumulo di tossine uremiche svolge un ruolo cruciale nella progressione della MRC e delle MCV.
Danno cardiovascolare, aumentata suscettibilità alle infezioni e manifestazioni nutrizionali, neurologiche ed ematologiche peggiorano la qualità di vita e determinano un’elevata mortalità nel paziente in dialisi. La funzionalità renale residua può contribuire in modo significativo alla rimozione dei soluti per i quali il legame proteico limita la clearance mediante emodialisi.
Studi recenti nei pazienti con danno renale acuto hanno rivelato che le tossine uremiche legate alle proteine come l’indoxil solfato (IS) e il p-cresil solfato (PCS) hanno origine dalla fermentazione proteica del microbiota intestinale e sono associate a uno sfavorevole outcome clinico, a un elevato rischio di malattia cardiovascolare e a un elevato tasso di progressione verso la MRC e di mortalità. L’IS induce uno stress ossidativo nei tessuti vascolari con riduzione o, addirittura, inibizione di ossido nitrico, che è un importante regolatore del tono muscolare. Lo stress ossidativo è un fattore cruciale della disfunzione vascolare periferica, caratterizzata da disfunzione endoteliale, aumento dell’aterosclerosi e calcificazione vascolare. Queste disfunzioni vascolari, che alterano l’emodinamica generale, aumentano il rischio di eventi cerebrovascolari, come l’ictus. L’IS e il PCS sono difficili da eliminare attraverso la dialisi perché si legano saldamente all’albumina nel sangue; di conseguenza, il livello di tali sostanze nel cervello oltre che nel plasma nei pazienti con MRC è elevato rispetto ai soggetti controllo. In particolare queste tossine possono innescare una disfunzione cerebrale attraverso l’induzione di infiammazione e di stress ossidativo, riducendo ulteriormente la vitalità neuronale e contribuendo alla neurodegenerazione. Pochi studi, peraltro con risultati inconcludenti, hanno valutato l’associazione tra livelli di tossine legate alle proteine e deterioramento cognitivo.
In conclusione c’è molto interesse nell’uso di nuove tecnologie per un trattamento dialitico personalizzato con la rimozione efficiente di molecole medio-grandi, evitando gli effetti avversi sui sistemi biologici, con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita dei pazienti.
Tossicità uremica su organi e apparati | |
---|---|
Cuore e vasi | Disfunzione delle cellule endoteliali Aterosclerosi Ipertensione Calcificazione |
Sistema immunitario | Infiammazione cronica Suscettibilità alle infezioni |
Apparato osteo-articolare | Fratture ossee Osteoporosi Osteopenia |
Sistema nervoso | Disfunzione cognitiva Polineuropatia Restless syndrome Demenza Parkinsonismo |
Cute | Prurito Alterata pigmentazione |
Apparato emopoietico | Anemia Leucocitopenia Trombocitopenia |
Apparato gastrointestinale e stato nutrizionale | Gastrite, duodenite Disbiosi intestinale Sarcopenia |
Sistema endocrino | Insulino-resistenza |
Prurito uremico: focus sulla terapia
Massimo Belluardo1, Anna Mudonihttps://orcid.org/0000-0001-6122-80822, Annalisa Noce3,4, Giulia Marrone3, Vincenzo Antonio Panuccio5,6, Pina Meloni7, Antonio Nicoletti8, Michelangelo Eroli9, Francesco Logias10
1UOC Nefrologia e Dialisi ASL Ogliastra Lanusei - Italy
2U.O. Pia Fondazione di Culto e religione, Azienda Ospedaliera Cardinale G. Panico, Tricase (LE) - Italy
3Dipartimento di Medicina dei Sistemi, Università degli Studi di Roma Tor Vergata - Italy
4UOSD Nefrologia e Dialisi, Policlinico Tor Vergata, Roma - Italy
5U.O.C. di Nefrologia, Dialisi abilitata al Trapianto di Rene, Reggio Calabria - Italy
6Istituto di Fisiologia Clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Reggio Calabria - Italy
7Cardiologia Territoriale ASL Nuoro - Italy
8Rete Emodialitica ASP Cosenza - Italy
9UOC di Nefrologia e Dialisi Azienda ospedaliera Santa Maria Terni - Italy
10ASL Ogliastra, Lanusei (OG) - Italy
Il prurito uremico (PU) è una complicanza frequentemente osservata nei pazienti sottoposti a emodialisi ed è correlato a diversi disturbi sistemici con importanti comorbidità a medio e a lungo termine. Il PU causa disturbi del sonno, depressione, aumentato rischio di infezioni, disturbi cognitivi ed eventi cardiovascolari, riduce la qualità di vita del paziente e ne aumenta il tasso di mortalità. In letteratura è riportata un’incidenza del 40% circa nonostante i progressi nella terapia dialitica.
Il meccanismo patogenetico sottostante rimane ancora oscuro. Infatti, alla sua patogenesi sono stati associati istamina, prostaglandine, citochine, neuropeptidi e proteasi, ormone paratiroideo, magnesio, calcio, β2-microglobulina, vitamina A, anomalie dei recettori degli oppioidi, la microinfiammazione e tanto altro. Una teoria sostiene che uno squilibrio tra i recettori μ-oppioidi e κ-oppioidi (in particolare, sovrastimolazione μ e antagonismo κ) possa causare prurito. Anche le continue e repentine alterazioni dello stato di idratazione dei pazienti in emodialisi, malnutrizione, bassi livelli di albumina ed elevati livelli di proteina C-reattiva sono fattori collegati al prurito.
I recenti progressi nel trattamento emodialitico hanno migliorato la rimozione di molecole di piccolo e medio peso molecolare; tuttavia, la rimozione delle tossine uremiche legate alle proteine (PBUT) rimane difficile. È possibile che esposizioni multiple a PBUT sieriche, che continuano ad accumularsi nei pazienti in emodialisi, possano influenzare la patologia del prurito. Il prurito mediato dall’istamina è associato alla presenza di una tossina uremica non dializzabile, di peso simile alle IgG (160 kDa) e caricata positivamente.
Inoltre, sebbene non sia stato stabilito alcun target Kt/V specifico per la gestione del prurito, si raccomanda di utilizzare i target Kt/V associati a risultati clinici ottimali. L’ottimizzazione della dialisi è una strategia proposta da vari Autori per il miglioramento della sintomatologia e può includere l’aumento della frequenza delle sedute di dialisi e il passaggio da dializzatori a basso flusso a dializzatori ad alto flusso. In particolare, i filtri in polimetilmetacrilato (PMMA) potrebbero avere una certa influenza nel trattamento del prurito attraverso la loro capacità di adsorbimento di particelle di peso molecolare medio e alto. Un altro possibile meccanismo sarebbe la diminuzione del fattore di necrosi tumorale; tuttavia, in uno studio, è stato dimostrato che i dializzatori in PMMA riducono il prurito indipendentemente dalle concentrazioni di tale fattore.
Gli emollienti e i trattamenti topici, utilizzati per idratare la pelle in presenza di una xerosi dovuta alla secchezza cutanea sia per diminuzione delle ghiandole sebacee e sudoripare che per le alterazioni della vascolarizzazione cutanea, rappresentano una delle opzioni terapeutiche con risultati di breve durata e scarso beneficio. Anche l’unguento a base di Tacrolimus è risultato essere di scarsa efficacia.
Non vi sono prove sull’efficacia degli antistaminici nonostante siano tra i farmaci più utilizzati nel trattamento del prurito uremico.
Sono stati utilizzati anticonvulsivanti come Gabapentin e Pregabalin che agiscono bloccando i canali del calcio a livello centrale e che modulano il dolore neuropatico. Gabapentin ha dimostrato di ridurre il prurito sia alla dose di 300 mg per 3 volte a settimana che di 100 mg per 3 volte a settimana; in caso di effetti collaterali è stato utilizzato il Pregabalin (25 mg post-HD nei pazienti HD), con effetti comparabili e una migliore tolleranza.
Montelukast, con un’azione antinfiammatoria, come evidenziato dalla significativa riduzione dei livelli di proteina C-reattiva, è un farmaco con un profilo di sicurezza e pochi effetti avversi e interazioni con altri farmaci ed è stato utilizzato nel prurito uremico con buoni risultati a dosi giornaliere di 10 mg.
Carlos Santos Alonzo et al., in una review pubblicata nel 2022, hanno sviluppato due diversi algoritmi di trattamento basati sulle condizioni di base e sulle comorbidità dei pazienti, dando priorità a farmaci maggiormente studiati e con migliore profilo di sicurezza. Gli Autori sottolineano l’importanza di un primo approccio più conservativo (trattamenti topici, ottimizzazione della dialisi e controllo Ca-P) e successivamente di un trattamento per pazienti anziani con molte comorbidità e di un altro per i pazienti meno fragili con una condizione generale migliore.
Difelikefalin è un antagonista potente e altamente selettivo del recettore degli oppioidi kappa. Non attraversa la barriera ematoencefalica e ha effetti antipruriginosi e antinfiammatori tramite la sua azione sui neuroni sensoriali periferici e sulle cellule immunitarie, con una penetrazione limitata nel sistema nervoso centrale. Grazie alle sue proprietà chimico-fisiche di permeabilità della membrana ha un profilo di tollerabilità e di sicurezza migliore rispetto ad altri antagonisti degli oppioidi, come risulta negli studi di fase 3. I pazienti trattati con Difelikefalin hanno avuto una riduzione significativa dell’intensità del prurito e un miglioramento della qualità della vita rispetto al placebo.
Difelikefalin è somministrato per via e.v. tre volte a settimana in bolo (0,5 mcg/Kg) nella linea venosa del circuito dialitico a fine trattamento. Effetti collaterali più frequenti sono diarrea, cefalea, nausea, sonnolenza e vertigini transitorie.
A nostro avviso, una cura ottimizzata per il PU richiede un approccio interprofessionale che coinvolga nefrologi, dermatologi, infermieri e psicologi clinici; è auspicabile un registro con tutti gli interventi e le interazioni con il paziente in modo che tutti i membri del team abbiano accesso ai dati aggiornati.
Valutazione dello stato di idratazione del paziente in dialisi
Michelangelo Eroli1, Anna Mudonihttps://orcid.org/0000-0001-6122-80822, Antonio Nicoletti3, Salvatore Mancuso4, Massimo Belluardo5, Carlo Mura6, Pina Meloni7, Francesco Logias8
1UOC Nefrologia e Dialisi Azienda Ospedaliera Santa Maria Terni - Italy
2U.O. Pia Fondazione di Culto e religione, Azienda Ospedaliera Cardinale G. Panico, Tricase (LE) - Italy
3Rete Emodialitica ASP Cosenza - Italy
4Centro Emodialisi Mazarese, Mazara del Vallo (TP) - Italy
5UOC Nefrologia e Dialisi ASL Ogliastra Lanusei - Italy
6U.O. di Nefrologia e Dialisi ASSL Ospedale S. Francesco, Nuoro - Italy
7Cardiologia Territoriale ASL Nuoro - Italy
8ASL Ogliastra, Lanusei (OG) - Italy
Un’attenta valutazione dello stato di idratazione rappresenta un momento fondamentale del lavoro dello specialista nefrologo; è ampiamente dimostrato che un’elevata mortalità si associa sia all’espansione cronica di volume sia agli stati di ipovolemia e di disidratazione. In particolare, nel paziente emodializzato, il controllo dello stato di idratazione avviene esclusivamente attraverso l’ultrafiltrazione intradialitica oscillando tra una condizione di iperidratazione pre-dialitica e una di disidratazione post-dialitica. Il concetto di “peso secco” è ancora oggi oggetto di discussione e la sua valutazione è ancora meramente empirica. Lo stato di idratazione, infatti, è in funzione non solo della quantità dei liquidi corporei, ma soprattutto della loro distribuzione nei compartimenti dell’organismo e la valutazione clinica, sebbene rappresenti un momento necessario, non sempre è sufficiente. Le variazioni del volume extracellulare possono essere la conseguenza di variazioni nella massa magra e/o grassa del paziente e, non di rado, si verificano casi di iperidratazione con ridotta volemia. Il concetto vago e poco chiaro di “stato del volume” rimane una sfida per tutti noi medici.
Al fine di superare i limiti legati alla sola valutazione clinica possiamo avvalerci di alcuni strumenti, ognuno dei quali, a sua volta, valuta un aspetto diverso dello stato di idratazione.
La bioimpedenziometria permette una valutazione immediata della composizione corporea sfruttando le proprietà conduttive del corpo umano con conseguenti informazioni circa lo stato di idratazione e di nutrizione dei soggetti in esame. Tale aspetto è di primaria importanza poiché stato nutrizionale e idratazione sono strettamente correlati l’uno con l’altra. La rappresentazione vettoriale dell’impedenza (BIVA) consente una valutazione diretta del paziente direttamente a partire dai parametri impedenziometrici, facendo a meno di equazioni o di modelli non sempre correttamente riproducibili.
Un altro strumento prezioso è rappresentato dall’utilizzo della metodica ecografica.
L’approccio ultrasonografico riveste un ruolo importante permettendo la stima della volemia centrale attraverso la valutazione del diametro e dell’indice di collassabilità della vena cava inferiore, oltre a valutare il grado di congestione polmonare attraverso la ricerca di artefatti noti come linee B.
Il valore aggiunto di tale metodica consiste nella capacità di identificare anche un modesto incremento della quota di acqua extravascolare polmonare, non sempre evidente clinicamente. Ciò permette al clinico di riconoscere precocemente i segni di una congestione polmonare compartimentale anche nei pazienti asintomatici e apparentemente normoidratati, condizione abbastanza frequente nel paziente emodializzato. L’ecografia del torace permette inoltre di identificare e/o di escludere la presenza di versamenti pleurici e di consolidazioni parenchimali di varia natura direttamente al letto del paziente.
Negli ultimi anni lo sviluppo dell’ecografia point-of-care (POCUS) ha riunito l’interesse di vari specialisti (intensivisti, anestesisti, medici di emergenza e nefrologi) con un potente strumento in grado di effettuare una valutazione al letto del paziente.
Denault e Beaubien-Souligny et al. hanno sviluppato un punteggio ecografico in eccesso venoso (Venous Excess Ultrasound Score, VExUS).
La tecnica VExUS, non invasiva, ripetibile, eseguita al letto del paziente e a costo minimo può essere effettuata per valutare la congestione venosa con un buon tasso di successo, se eseguita da personale esperto. VExUS sfrutta il fatto che le forme d’onda Doppler caratteristiche sono associate a diversi gradi di congestione venosa negli organi periferici e le combina in una valutazione unificata della circolazione venosa, comprese le misurazioni della vena cava inferiore, epatica, portale e renale. Gli Autori hanno considerato:
- il Doppler epatico lievemente anormale quando la componente sistolica era di entità inferiore rispetto alla componente diastolica (verso il fegato), mentre gravemente anormale quando la componente sistolica è invertita (verso il cuore);
- il Doppler portale lievemente anormale in presenza di una variazione delle velocità durante il ciclo cardiaco dal 30% a <50%, mentre gravemente anormale quando la variazione è ≥ 50%;
- il Doppler venoso intra-renale lievemente anormale quando era discontinuo con una fase sistolica e diastolica, mentre gravemente anormale quando era discontinuo con solo una fase diastolica osservata durante il ciclo cardiaco.
Il grado complessivo di congestione veniva definito sulla base dell’espansione della vena cava e del numero di distretti che presentano gravi alterazioni del tracciato Doppler.
Il punteggio VExUS potrebbe essere di grande aiuto per valutare lo stato del volume dei pazienti critici, per prevedere i pazienti cardiorenali che necessitano di un’ultrafiltrazione in terapia intensiva e per valutare la risposta alla terapia diuretica. Gli Autori giungono alla conclusione che ulteriori studi dovrebbero mirare a convalidare questa tecnica nei diversi contesti clinici.
Nessuna delle metodiche citate può essere considerata come gold standard, pertanto è proprio grazie alla loro integrazione affiancata da un attento e imprescindibile approccio clinico che è possibile affinare la valutazione del paziente nella sua complessità.
Modelli organizzativi indispensabili nella gestione dell’aferesi terapeutica
Giacomina Loriga, Federico Cabigiosu, Luca Urru, Caterina Dore, Valentina Spissu, Franco Re, Milco Ciccarese
Struttura Complessa Nefrologia Dialisi e Trapianto, AOU Sassari - Italy
La definizione aferesi terapeutica (AT) descrive numerose metodiche extracorporee accomunate dall’obiettivo di rimuovere dal circolo ematico sostanze o cellule responsabili di differenti stati patologici. Allo stesso tempo la metodica è in grado di restituire o rimpiazzare le sostanze eliminate o carenti in una determinata patologia. Questa peculiarità offre un beneficio addizionale nella cura di molteplici condizioni di interesse multidisciplinare, dove la maggioranza delle branche specialistiche risulta coinvolta per la possibile indicazione, in prima linea o, più spesso, come terapia di supporto o di attacco, prontamente disponibile nell’attesa che terapie specifiche abbiano il tempo di agire. Si tratta di metodiche complesse con un’indicazione assolutamente non comune, anche per la rarità delle patologie che ne trovano beneficio.
Affinché possa essere posta indicazione all’utilizzo dell’AT, la sostanza da eliminare dal circolo deve rispettare una delle seguenti condizioni: avere un’emivita sufficientemente lunga, tale che la rimozione extracorporea sia più rapida della clearance endogena, essere patologica, acutamente tossica e/o resistente alla terapia convenzionale e avere un peso molecolare > 15.000 dalton, tale da non poter essere rimossa mediante tecniche meno costose come l’emodialisi ad alto flusso. Se sussiste una di queste condizioni, qualsiasi specialista può porre indicazione all’AT, presentando il paziente al centro di riferimento per una valutazione complessiva del caso.
Accanto a regimi di trattamento prolungati, l’indicazione può essere posta in urgenza, aprendo più di una problematica. Innanzitutto, il corretto inquadramento diagnostico, con indicazione all’esecuzione di test genetici e di laboratorio estremamente raffinati, da avviare prima del primo scambio plasmatico, impone la creazione di una sieroteca e contatti predeterminati con centri altamente specializzati. Al paziente dovranno essere garantiti un accesso vascolare idoneo ai flussi ematici della metodica nonché il liquido di sostituzione, con enorme sforzo da parte delle banche di emoderivati. Fondamentale è il supporto di una terapia intensiva che garantisca il supporto vitale del paziente fino a quando tutti i presidi terapeutici non ottengono il risultato sperato.
Dove la metodica trova familiarità di utilizzo da parte di specialisti nefrologi, il risvolto terapeutico è estremamente ampio; solo la collaborazione attiva di innumerevoli figure specialistiche conduce alla riuscita e alla sicurezza del trattamento, altrimenti potenzialmente vano se non addirittura nocivo. L’attenta pianificazione del trattamento comporta uno stretto coordinamento tra medici, infermieri, radiologi interventisti, servizio trasfusionale e altri dipartimenti competenti. La procedura va effettuata da personale esperto, formato per prevenire, riconoscere e trattare prontamente le possibili complicanze ad essa correlate.
Il corretto uso dell’AT, basato sull’evidenza nelle sue innumerevoli indicazioni, richiederebbe un sapere immenso se la scelta della terapia dovesse essere posta dal singolo. Fortunatamente, organismi che lavorano riunendo le evidenze scientifiche disponibili creano da tempo un documento indispensabile, pubblicato ogni 2 anni nello Special Issue del Journal of Clinical Apheresis. Il valore delle Linee Guida ASFA risiede non solo nella natura esaustiva delle revisioni della letteratura, ma anche nel formato conciso e chiaro. Le indicazioni sono presentate in schede informative che includono categorie, gradi basati sull’evidenza, una breve sinossi, il programma di trattamento raccomandato, il liquido di sostituzione suggerito, i volumi di scambio e la frequenza della procedura.
Gli Autori distinguono 4 differenti categorie (Fig. 7). Alla prima appartengono condizioni nelle quali l’AT deve essere considerata una terapia di prima linea, da sola o in associazione con altri tipi di trattamento. Alla seconda appartengono quei disordini nei quali rappresenta una terapia di seconda linea, in associazione con ulteriori terapie. Nella terza sono identificati disordini nei quali il ruolo dell’aferesi non è stabilito e la decisione di un piano di trattamento dovrebbe essere individualizzata. Nella quarta sono invece inquadrate patologie per le quali l’indicazione andrebbe discussa con un board di esperti o sottoposta ad approvazione dei Comitati Etici, poiché le evidenze suggeriscono una non efficacia se non un potenziale danno.
L’ulteriore suddivisione per gradi di evidenza discrimina tra forte e debole raccomandazione, sulla base della validità delle evidenze scientifiche, e risente dell’esiguità dei dati disponibili. Il grado di evidenza necessita quindi di una valutazione critica, potendo determinare un sostegno così come una controindicazione all’uso dell’intervento terapeutico considerato.
La distribuzione delle patologie nelle varie categorie dimostra che ancora oggi, nella maggioranza delle patologie, le evidenze sono al momento insufficienti per comprovare una reale efficacia. In questi casi la dimestichezza di utilizzo e l’esperienza pregressa rivestono un ruolo fondamentale, dove le Linee Guida possono solo suggerire una possibile utilità terapeutica. In tale scenario, un team di esperti e una rete organizzativa complessa rappresentano i punti cardine di un programma di AT efficace e sicuro, offrendo potenzialità terapeutiche aggiuntive alla terapia convenzionale.
Reazioni al filtro in emodialisi
Patrizia Vatieri
U.O. Nefrologia e Dialisi Ospedale San Martino, Oristano - Italy
Le reazioni al dializzatore (filtro per emodialisi) sono reazioni di tipo immuno-allergico conseguenti all’interazione tra i costituenti del sangue e la membrana dell’emodialisi.
Clinicamente si distinguono in due tipi: reazione di TIPO A e di TIPO B.
TIPO A: circa 4/100.000 trattamenti dialitici. Si manifestano all’inizio del trattamento dialitico ed entro 20’/30’, subito dopo il ritorno del sangue dal circuito.
I sintomi possono essere lievi (prurito, vampate, tosse, sibili, diarrea, crampi, cefalea, dolore alla schiena e/o al petto, brividi, febbre, nausea, vomito) o gravi (dispnea, ipotensione, senso di morte imminente, arresto cardiaco, morte).
TIPO B: reazioni più comuni e fortunatamente meno gravi, si verificano nel 3-5% dei pazienti dopo 20-30 minuti dall’avvio della dialisi. I sintomi più comuni sono: dolore toracico o alla schiena, dispnea, ipotensione, nausea, vomito.
FIGURA 7 -. Classificazione delle patologie secondo i criteri della società americana di aferesi terapeutica (ASFA)
Frequenza delle reazioni: la % di reazioni allergiche è risultata 10-20 volte superiore con le membrane sintetiche che con le membrane cellulosiche e 3-4 volte superiore nei pazienti trattati con ACE-I.
La prevalenza di reazioni gravi è dello 0,25% del totale e dello 0,5% nei pazienti trattati con membrane sintetiche.
La tabella 2 illustra i vari meccanismi di reazione membrana-comparto ematico in relazione alla composizione della membrana stessa. Oltre al tipo di membrana una reazione può essere determinata anche dal metodo di sterilizzazione (raggi gamma, vapore) con complemento, aggregazione piastrinica, sequestro di globuli bianchi, formazione di trombi, liberazione di interleuchine).
Membrane cellulosiche | 1. Attivazione della cascata della coagulazione 2. Attivazione piastrinica 3. Attivazione del complemento |
Membrane semisintetiche | 1. Leucopenia 2. Rilascio delle proteasi leucocitarie 3. Minore attivazione del complemento |
Membrane sintetiche | 1. Attivazione piastrinica 2. Rilascio di PAF e interleukine |
Il corso, giunto alla seconda edizione, è stato accreditato secondo la Normativa Ministeriale per il riconoscimento di crediti formativi a diverse figure professionali: Medici chirurghi specialisti: Cardiologia, Cure palliative, Medicina Interna, Nefrologia; Dietisti ed Infermieri.
La gestione della malattia renale cronica continua a rappresentare una sfida costante per il nefrologo. In particolare, negli ultimi tempi si è assistito a nuove possibilità terapeutiche e risorse tecnologiche che vanno dal trattamento delle nefropatie fino alla dialisi e al trapianto. Tutto ciò implica un continuo aggiornamento professionale del nefrologo sempre più in collaborazione con altre figure professionali al fine di delineare i percorsi clinico-assistenziali diagnostici e riabilitativi ed i profili di assistenza e di cura.
L’obiettivo del convegno 2024 è stato quello di fornire un panorama sulle più recenti novità nella terapia del malato nefropatico con particolare attenzione i) alla problematica del rallentamento della progressione della malattia renale sulla base dei risultati dei più recenti trials; ii) alla gestione della FAV (fistola artero-venosa), iii) al trattamento delle alterazioni metaboliche e nutrizionali, iv) alle malattie rare e v) alle novità tecnologiche del trattamento dialitico.
Questi proceedings sono una parte delle presentazioni.