Therapeutic evolution: translating pharmacological innovation in tangible benefit for people with hemophilia A. A multistakeholder perspective
DOI:
https://doi.org/10.33393/grhta.2025.3618Keywords:
Health equity, Hemophilia A, Hemostasis normalization, Quality of life, Rare diseaseAbstract
The advances that have marked the history of hemophilia represent a concrete example of therapeutic evolution.
The progress made over the years has been able to revolutionize its treatment, bringing about a radical change
both in the therapeutic algorithm and in life expectancy. Considering the recent milestones achieved, it would be
anachronistic to maintain the same therapeutic goals as in the past; the normalization of hemostasis is the path
leading to the ultimate therapeutic goal, which should be the achievement of health equity: a life comparable to
that of a person without such a condition.
This article highlights the need for a multidisciplinary approach to the management of hemophilia, as raised
from the different perspectives of the stakeholders who contributed: pharmacologists, patients, clinicians,
bioethicists, pain therapists, and pharmacoeconomists. This has made it possible to gain a comprehensive view
that reflects the complexity of managing a chronic disease such as hemophilia.
Introduzione
I progressi avvenuti negli anni sono stati in grado di rivoluzionare il trattamento dell’emofilia portando a un cambiamento radicale sia nell’algoritmo terapeutico che nella qualità e nell’aspettativa di vita. In considerazione dei recenti traguardi ottenuti, risulterebbe anacronistico mantenere gli stessi obiettivi terapeutici del passato: la normalizzazione dell’emostasi è la strada che conduce verso l’obiettivo terapeutico finale, che dovrebbe essere il raggiungimento di una health equity, vale a dire una vita equiparabile a quella di una persona che non presenta un’analoga patologia.
Questo articolo evidenzia la necessità di un approccio multidisciplinare nella gestione dell’emofilia, emersa dal coinvolgimento di diverse figure e dei loro punti di vista: farmacologo, clinico, terapista del dolore, paziente, farmacoeconomista e bioeticista. Questo ha permesso di ottenere una visione globale che rispecchia la complessità della gestione di una malattia cronica come l’emofilia.
Il lavoro è il risultato di ciò che è emerso durante due diversi expert meeting multidisciplinari, avvenuti nel 2024, il primo a luglio e il secondo a novembre, durante i quali hanno partecipato gli stessi stakeholder. Gli expert meeting hanno permesso di discutere sullo stato dell’arte nella gestione dell’emofilia A, sugli unmet need e sulle opportunità derivanti dalle nuove tecnologie, evidenziando come l’evoluzione terapeutica abbia portato a un cambiamento nell’outcome clinico dell’emofilia e alla necessità di una gestione multidisciplinare coordinata. Per questo motivo si è deciso di coinvolgere gli stakeholder, che, pur afferendo a diversi ambiti, insieme contribuiscono alla gestione ottimale dell’emofilia: clinico, farmacologo, farmacoeconomista, terapista del dolore, bioeticista e rappresentante dei pazienti.
La patologia
L’emofilia A è una coagulopatia genetica rara a carattere recessivo, causata da una mutazione a carico del gene F8 localizzato a livello del cromosoma X; per questo colpisce maggiormente i soggetti maschili. Pur rimanendo una malattia rara, diagnosticata in 1,7-13,6 persone ogni 10.000 (1), si stima che in Italia circa 4.100 persone siano affette da emofilia A.
Questa mutazione si traduce in un livello endogeno di fattore VIII (FVIII) inferiore al 40% che causa un’interruzione della fisiologica cascata coagulativa, impedendo la stabilizzazione del coagulo.
Il FVIII è una glicoproteina pro-cofattore ed è rilasciato nel flusso sanguigno dalle reti vascolari degli endoteli, glomerulari e tubulari, e dalle cellule sinusoidali del fegato. Nel sangue circolante esso è principalmente legato al fattore di Von Willebrand (vWF), una glicoproteina multimerica con un ruolo cruciale nel fisiologico meccanismo emostatico, che si estrinseca attraverso due azioni: permette l’adesione e l’aggregazione piastriniche e stabilizza il FVIII, aumentandone l’emivita, che, in condizioni fisiologiche, si attesta tra le 8 e le 12 ore. Il legame che si instaura tra il vWF e il FVIII è a livello del dominio D’D3 del vWF, in assenza del quale, infatti, il FVIII andrebbe incontro a una rapida clearance (2). Dopo l’attivazione da parte della trombina (fattore IIa), il FVIII si dissocia dal complesso stabile con il vWF e interagisce con il fattore IXa nella cascata della coagulazione. Il FVIII assume il ruolo di cofattore del fattore IXa nell’attivazione del fattore X, che, a sua volta, con il suo cofattore, il fattore Va, attiva la trombina. La trombina induce la formazione di fibrina dal fibrinogeno. Con la polimerizzazione della fibrina per effetto della presenza di legami crociati con il fattore XIII, forma infine il coagulo di sangue.
Per questo, in assenza del FVIII, le manifestazioni cliniche tipiche dell’emofilia A sono gli episodi di sanguinamento clinici e subclinici, che possono manifestarsi spontaneamente o a seguito di traumi e che sono tanto più gravi quanto più grave è il deficit di FVIII (1). Le emorragie più gravi sono quelle intracraniche o mucosali, spesso subcliniche, non accompagnate da dolore ma che sono associate a un elevato tasso di mortalità.
Clinicamente, le sedi maggiormente colpite dai sanguinamenti spontanei sono le articolazioni e i muscoli, che, se non adeguatamente trattati, portano a un danno a livello del sistema muscolo-scheletrico che può portare a una grave disabilità. Gli emartri (versamento di sangue all’interno delle articolazioni) causano il danno articolare portando all’artropatia emofilica, la condizione clinica secondaria all’emofilia che ha l’impatto più negativo sulla vita dei soggetti con emofilia, perché associata a dolore cronico, che, a sua volta, riduce la mobilità, la produttività e la possibilità di condurre le attività quotidiane. Per questo, l’obiettivo terapeutico, oltre a dover ridurre i sanguinamenti, è quello di prevenire l'insorgenza dell’artropatia emofilica (3,4).
Il grado di severità dell’emofilia A è storicamente definito dal livello di attività del FVIII, sulla base del quale si distinguono tre diversi gradi di emofilia:
- lieve, in cui il FVIII è > 5% e < 40%;
- moderato, in cui il FVIII è > 1% e < 5%;
- grave, in cui il FVIII è < 1%.
I soggetti con emofilia moderata e grave sono generalmente quelli maggiormente esposti a sanguinamenti frequenti, spontanei o traumatici. Le sedi più frequenti di localizzazione delle emorragie sono le articolazioni, con la formazione iniziale di emartri che evolvono nel tempo in artropatia emofilica, condizione associata a uno stato di dolore cronico, che generalmente richiede il ricorso all’impianto chirurgico di protesi per recuperare la funzionalità articolare (1,5). Esistono anche fenomeni di emorragia accompagnati da un rischio letale o di grave disabilità (emorragie intracraniche o alcune tipologie di emorragie mucosali).
Il punto di vista del farmacologo: evoluzione dell’approccio terapeutico
Inizialmente, a causa delle emorragie anche gravi a cui erano soggetti, i pazienti affetti da emofilia presentavano un’aspettativa di vita alla nascita particolarmente ridotta (10-15 anni). Il primo approccio terapeutico, utilizzato fino agli anni ’60, consisteva in trasfusioni ripetute di sangue intero. Esso portava con sé un lieve incremento della sopravvivenza, che ha raggiunto i 20-30 anni (Figura 1) (6). La mortalità rimaneva comunque una questione molto rilevante e insoluta.
Il primo vero passo verso l’evoluzione-rivoluzione della terapia, che continua fino ai giorni nostri, si è avuto nel 1964, quando Judith Pool ha dimostrato che lo scongelamento del plasma portava alla formazione di un prodotto, chiamato crioprecipitato, ricco di FVIII (10). Questa scoperta si è rivelata un vero salvavita per l’epoca, contribuendo a ridurre drasticamente la mortalità legata all’emofilia. L’obiettivo terapeutico della sopravvivenza era stato raggiunto. Tuttavia, presentava due limiti non indifferenti: il primo era correlato alla disponibilità di donatori, mentre il secondo alla possibilità di conservazione e somministrazione del prodotto, che poteva avvenire esclusivamente in ambiente ospedaliero.
L’obiettivo successivo del trattamento è diventato quindi di consentire una gestione della patologia più agevole per il paziente. Negli anni ’70 c’è stato il passaggio alla produzione industriale dei plasmaconcentrati di FVIII ottenuti tramite liofilizzazione, che ha permesso la gestione domiciliare e continuativa della malattia, con un impatto positivo sul burden del paziente, che non era più costretto a recarsi continuamente presso la struttura ospedaliera. La loro ampia disponibilità ha permesso ad alcuni paesi, come la Svezia, di iniziare a pensare all’uso profilattico della terapia piuttosto che al bisogno (10). L’entusiasmo derivante dai progressi ottenuti negli anni ’70 si è spento negli anni ’80, con la diffusione di infezioni virali da epatiti e HIV/AIDS, causate dalla produzione ottenuta da un ampio pool di plasma (11). Accanto all’allarmante diffusione virale e alla mortalità a cui si assisteva tra i pazienti emofilici, bisogna anche considerare che l’HIV non era ancora stato identificato (12).
FIGURE 1 -. Adattata da (4,7-9). PwHA: persone con emofilia A; FVIII: fattore otto; EHL: extended half-life; UHL: ultra-long half-life.
Per questo, l’obiettivo non era più rappresentato solamente dall’efficacia ma anche dalla sicurezza dei trattamenti per l’emofilia, che è stata garantita da processi di produzione che prevedevano metodiche di inattivazione e di rimozione degli agenti virali, accompagnate dallo screening sistematico dei donatori. Questo ha garantito l’assenza di nuovi casi di infezioni da HIV e da HCV tra la popolazione emofilica già dal 1985 (11,12).
Nel 1984 è stato clonato il gene del FVIII che ha portato nel 1992 al primo FVIII ricombinante (rFVIII) (13). Infatti, accanto ai progressi produttivi, i miglioramenti in campo scientifico, specificamente nel campo del DNA ricombinante, hanno consentito di portare le terapie a un alto livello tecnologico con l’avvento dei rFVIII (10). Nel sottolineare l’importanza dei progressi tecnologici in emofilia è necessario comprendere che il rFVIII rappresenta una delle proteine più grandi e complesse da produrre.
I rFVIII possono essere classificati in tre differenti “generazioni”: 1) i prodotti di prima generazione utilizzano le proteine di origine animale nel medium delle cellule di coltura e l'albumina sierica nella formulazione finale, con l'obiettvo si stabilizzarla; 2) i prodotti di seconda generazione utilizzano le proteine di origine umana nel medium di coltura cellulare ma escludono l’albumina nella formulazione finale per migliorare la sicurezza e prevedono l’aggiunta del saccarosio; 3) i prodotti di terza generazione escludono le proteine di origine animale o umana sia nel processo di produzione che nella formulazione finale. Un ulteriore livello di distinzione dei concentrati di rFVIII si basa sulla struttura: FVIII a lunga catena (full-length) e FVIII con dominio-B deleto (B domain-deleted) (10).
Raggiunto l’obiettivo della safety, l’attenzione si è focalizzata nell’individuare nuove tecnologie produttive che permettessero di aumentare l’emivita del FVIII, aumentando l’intervallo di somministrazione. L’emivita del FVIII naturale oscilla tra le 8 e le 12 ore e, pertanto, le strategie di rimpiazzo con il fattore ricombinante, nelle forme severe di emofilia A, si sono dovute confrontare con l’esigenza di ripetute infusioni settimanali. Questo si traduce negativamente sulla qualità di vita dei soggetti con emofilia ed è un ostacolo al perseguimento di comportamenti aderenti e persistenti.
Per questo si è passati da rFVIII Standard Half-Life (SHL) a Extended Half-Life (EHL), rFVIII a lunga emivita. Questi ultimi erano ottenuti attraverso due differenti approcci: attraverso il legame covalente tra il FVIII e il polietilenglicole (PEG), noto come PEGilazione, o attraverso la fusione con la porzione Fc (frammento cristallizzabile) della IgG. Questi approcci hanno portato a un’estensione dell’emivita di 1,5-1,7 volte maggiore rispetto ai rFVIII SHL, che si traduce in una riduzione dell’intervallo di somministrazione da tre volte a settimana a due volte a settimana, a prescindere dal rFVIII EHL utilizzato.
La PEGilazione comporta un aumento della grandezza e del peso molecolare delle proteine PEGilate, che si traduce in una riduzione della clearance recettore-mediata (13).
La regione Fc delle IgG1 si lega a un recettore (Fc neonatale) che è coinvolto nel processo fisiologico di riciclo e transcitosi delle immunoglobuline, aumentando la loro sopravvivenza in circolo. La fusione con tale dominio è stata utilizzata anche nello sviluppo di altre terapie ed è quindi una tecnologia consolidata per prolungare l’emivita dei farmaci attraverso un processo fisiologico (14). Nel caso del trattamento dell’emofilia questa strategia è stata applicata in un formato ibrido monomero-dimero, in cui una singola proteina di FVIII viene legata a due frammenti Fc.
Tuttavia, queste modifiche non consentivano di estendere l’emivita del FVIII in maniera indefinita: il numero di somministrazioni si attesta a 2-3 alla settimana, con un livello di FVIII elevato nelle prime ore, che però va scemando rapidamente fino a tornare a un livello quasi basale prima della somministrazione successiva. Le diverse strategie hanno quindi consentito di prolungare l’emivita dei rFVIII fino a 15-19 ore, che ha consentito di ridurre le infusioni a circa 2 volte alla settimana, ma tale limite temporale non è mai stato superato, a differenza di quanto osservato con il fattore IX ricombinante nell’emofilia B. Il problema inerente al FVIII, naturale o ricombinante, è che la sua emivita è dettata dal vWF, con il quale è associato in circolo, che lo “trascina” in degradazione, in accordo con la propria emivita, che è di circa 15 ore (15). Il legame con il vWF ha un ulteriore risultato, dipendente dal fatto che ciascun individuo presenta livelli specifici di vWF e un differente metabolismo dello stesso: la terapia sostitutiva in emofilia è infatti caratterizzata da una variabilità di risposta inter e intra individuale, che varia non soltanto tra i differenti fenotipi ma, nel corso del tempo, anche nello stesso individuo. Questo ha portato all’idea che un regime fisso non permetta di raggiungere una protezione nei confronti dei sanguinamenti che sia ottimale per tutti i pazienti, richiedendo una massiva personalizzazione della terapia per mantenere livelli di FVIII ottimali piuttosto che raggiungere il livello di threshold minimo (7).
Da quanto descritto sopra, per aumentare in maniera consistente l’emivita del rFVIII e ottenere una risposta generalizzabile alla popolazione affetta da emofilia, sono stati necessari approcci innovativi allo scopo di disaccoppiare il rFVIII dal vWF. La molecola efanesoctocog alfa rappresenta l’applicazione di questa strategia di disaccoppiamento, che ha tenuto anche in considerazione che, in assenza del legame con il vWF, l’emivita del FVIII scenderebbe a meno di 2 ore. Nella molecola efanesoctocog alfa il disaccoppiamento è stato infatti effettuato incorporando nella molecola ricombinante il dominio D’D3 del vWF, che, legandosi ai domini C1 e C2 del FVIII, impediscono al vWF circolante di riconoscere il FVIII e di legarsi ad esso. Contemporaneamente, il dominio D’D3 preserva proprietà stabilizzanti sul FVIII, prevenendone la rapida degradazione. La fusione con il Fc delle IgG e la Xtenilazione, una tecnologia di coniugazione con polipeptidi idrofilici che sta sostituendo la PEGilazione, sono le altre due modificazioni introdotte nella molecola, consentendone il prolungamento dell’emivita fino a circa 44 ore (high-sustained FVIII) (15).
In risposta all’esigenza di ottenere risultati standardizzabili nella popolazione, sono state sviluppate strategie terapeutiche alternative alla terapia sostitutiva, che hanno portato all’introduzione delle terapie non sostitutive, come l’anticorpo monoclonale emicizumab, somministrato per via sottocutanea. Si tratta di un anticorpo bispecifico progettato per legare a ponte il fattore IX attivato e il fattore X della coagulazione, allo scopo di sostituire l’attività del cofattore FVIII attivato (FVIIIa) mancante, senza presentare alcuna correlazione strutturale né omologia sequenziale con il FVIII (16).
Tuttavia, questa strategia non solo non consente il trattamento di tutti i setting di popolazione, ma inoltre non è in grado, da sola, di garantire livelli di protezione adeguati, dovendo essere supportata da somministrazioni di FVIII per gestire i sanguinamenti sia acuti che spontanei, eventualità che si verifica quasi nella metà della popolazione trattata (17,18) o nel caso non infrequente di interventi chirurgici.
Ultima strategia approvata è la terapia genica per la quale sono ancora variabili i dati relativi all’efficacia e, soprattutto, al tempo di mantenimento dell’espressione del FVIII con conseguente bisogno di un’eventuale ripresa della profilassi con FVIII esogeno. A questo si aggiungono dei limiti nell’accesso alla terapia genica sia per il numero limitato di centri abilitati all’infusione sia per i criteri di inclusione stringenti (età > 18 anni, stato e funzione epatica, anticorpi anti-AAV, inibitori anti-FVIII, storia di inibitori anti-FVIII) (19).
La profilassi con la terapia sostitutiva con rFVIII ancora oggi rappresenta lo standard-of-care dell’emofilia A, perché si basa sull’evidenza che prevenire i sanguinamenti, piuttosto che trattarli on-demand, rappresenti la strategia migliore nel ridurre i sanguinamenti e il danno articolare. A cascata, la profilassi conduce a una migliore qualità di vita, alla riduzione delle ospedalizzazioni e dell’assenteismo da lavoro e scuola e al rispetto del trattamento on-demand (10,20). La profilassi si basa sulla somministrazione continuativa della terapia sostitutiva e può essere primaria se instaurata in assenza di artropatia, prima del secondo evento emorragico articolare e a un’età < 3 anni di vita, secondaria se la terapia è avviata prima dell’insorgenza dell’artropatia e dopo il secondo o ulteriori episodi di sanguinamento articolare e terziaria se invece inizia dopo l’insorgenza dell’artropatia (1).
La terapia sostitutiva resta quindi lo standard-of-care del trattamento dell’emofilia, motivo per il quale la ricerca farmacologica è ricominciata in questa direzione, nel tentativo di standardizzare e di prolungare la protezione garantita dalla terapia, riducendo contestualmente il burden della stessa.
Il punto di vista del clinico: l’evoluzione dell’outcome da efficacia clinica a outcome composito
Se ci si limitasse a valutare l’efficacia di una terapia per l’emofilia sulla base dell’outcome clinico storicamente riconosciuto come benchmark, vale a dire la capacità di riduzione del tasso annualizzato di sanguinamento (Annualized Bleeding Rate, ABR) o la capacità della profilassi di mantenere i livelli di FVIII stabili > 1%, si concluderebbe che, con gli approcci attuali, è possibile raggiungere l’obiettivo; ma è possibile affermare che l’emofilia sia efficacemente gestita?
Oggi, la life expectancy dei soggetti con emofilia A è equiparabile a quella della popolazione generale e per questo è più corretto parlare di persone con emofilia A (people with HA, PwHA) piuttosto che di pazienti. In realtà, però, la comparazione è in termini di anni di vita guadagnati e non di anni di vita liberi da malattia; quindi, si vive più a lungo ma in presenza di dolore cronico e di disabilità.
L’evoluzione farmacologica e tecnologica non rappresenta soltanto una risposta all’esigenza clinica che è variata nel tempo, ma ha instaurato un circolo virtuoso che ha consentito un avanzamento dell’obiettivo terapeutico, che dalla sopravvivenza si può orientare ora a un concetto di normalizzazione/hemophilia free-mind/health equity.
In realtà, le PwHA che raggiungono e mantengono il livello di FVIII > 1% continuano ad avere episodi di sanguinamenti spontanei, anche subclinici, e la profilassi attuale non riesce a prevenire l’artropatia emofilica. Per questo, le Linee Guida della WFH 2020 attualmente in vigore indicano che innalzare il livello di FVIII ≥ 3%-5% permette di proteggere ulteriormente dagli episodi di sanguinamento (1).
Infatti, se, da un lato, la profilassi ha portato a un miglioramento della qualità di vita delle persone con emofilia in termini di riduzione dei sanguinamenti e quindi di protezione articolare, di riduzione delle ospedalizzazioni e conseguentemente di giorni di produttività persi (21), dall’altro però richiede un regime di trattamento continuativo che può rappresentare un ostacolo e condurre a una ridotta compliance da parte dei soggetti affetti, con conseguente riduzione di efficacia. Per questo, affinché la profilassi possa raggiungere una protezione ottimale nei confronti dei sanguinamenti, è necessario adeguarla in relazione al fenotipo emorragico, al profilo farmacocinetico e allo stile di vita dei soggetti affetti, tenendo conto delle abitudini e delle necessità quotidiane (22).
Negli anni, diverse evidenze hanno rafforzato l’ipotesi che fosse necessario aumentare il target dei livelli di FVIII, passando da un livello di FVIII > 1% a un livello compreso tra il 3% e il 5%. Oggi, tuttavia, i più recenti studi hanno dimostrato che il tempo trascorso da un paziente al di sopra della soglia di FVIII del 30% è ancora più rilevante per garantire una protezione anche dai sanguinamenti subclinici (23,24); da qui la necessità di ripensare all’obiettivo, passando dal mantenimento del trough level minimo di FVIII al mantenimento dei livelli di FVIII ottimali, attraverso la normalizzazione dell’emostasi (4,7).
In questo scenario, la valutazione del profilo farmacocinetico riveste un ruolo fondamentale nel customizzare il regime di profilassi, con l’obiettivo di mantenere i livelli di FVIII elevati, cercando contemporaneamente di ridurre le somministrazioni settimanali (7).
Considerando che l’emofilia è una patologia cronica e che, come tale, richiede un trattamento altrettanto cronico che duri tutta la vita, questo rappresenta un importante burden che impatta notevolmente sulla qualità di vita (QoL) dei soggetti affetti, che non riguarda solamente lo stato di salute, ma anche quello sociale, economico, cognitivo e affettivo. Per questo il concetto di evoluzione terapeutica inevitabilmente passa attraverso il concetto di ottimizzazione della gestione terapeutica.
Alla luce di tutte queste considerazioni e consapevolezze, l’inclusione della valutazione dell’outcome composito all’interno del processo decisionale nella gestione delle PwHA potrebbe essere la corretta chiave di lettura, perché include obiettivi clinici (morfologia, score funzionale e normalizzazione dell’emostasi), di QoL (riduzione del dolore cronico) e sociali.
Accanto a questo, è necessario distinguere due “generazioni” di pazienti che richiedono due approcci diversificati ma con lo stesso obiettivo finale di evitare l’artropatia emofilica: la prima è rappresentata dal paziente “storico” già abituato alla gestione della profilassi, finalizzata alla riduzione dei sanguinamenti e quindi del dolore associato all’artropatia, che però può avere già subito danni articolari non reversibili; per questo l’obiettivo terapeutico sarà la stabilizzazione della patologia; la seconda generazione è invece quella dei pazienti più giovani, per i quali un approccio finalizzato al mantenimento di un’emostasi normalizzata potrebbe permettere di evitare del tutto le sequele dell’emofilia, come l’artropatia, eliminando la componente del dolore e consentendo di vivere una vita quanto più possibile simile a quella di un coetaneo non affetto dalla patologia.
Il punto di vista del terapista del dolore: un approccio evidence-based
Il dolore percepito non è correlato solo agli episodi emorragici; le PwHA soffrono principalmente di dolore nocicettivo ma vi sono anche manifestazioni di dolore neuropatico e/o un’alterazione del meccanismo del dolore a livello centrale (25-27). I pazienti con emofilia sviluppano episodi acuti di dolore articolare che possono essere dovuti a riacutizzazioni artrosiche (flare) o a un’emartrosi episodica e distinguere i due casi sulla base della sintomatologia non è facile. I dati ottenuti da un recente studio basato sul patient-assessment hanno dimostrato che, su 79 episodi di dolore riportati da 32 pazienti, la sensazione “like a ballon swelling with water” era associata a un probabile sanguinamento, mentre la sensazione di “no feeling of sponginess with movement” era legata alla riacutizzazione artrosica (28). L’approccio farmacologico al dolore cronico nelle PwHA inizia con l’utilizzo del paracetamolo, seguito dagli inibitori del COX-2 per poi passare, se necessario, agli oppioidi (26). Il position paper dell’European Pain Federation sull’utilizzo degli oppioidi nel dolore cronico evidenzia che questi non dovrebbero essere usati come opzione terapeutica di prima linea per qualsiasi dolore cronico non-cancro correlato. L’assistenza di prima linea per il dolore cronico non oncologico dovrebbe consistere nello sperimentare trattamenti non farmacologici (per esempio, esercizio fisico, fisioterapia, terapie psicologiche) e/o analgesici non oppioidi (29). Quando si seleziona un trattamento oppioide, bisognerebbe considerare il tipo di dolore cronico non cancro-correlato (sindrome da dolore cronico primario o secondario), le comorbidità del paziente (per esempio, problemi di salute mentale, storia di dipendenza), le controindicazioni, le preferenze del paziente, gli obiettivi del trattamento, i benefici e i rischi dei trattamenti e il rapporto rischio-beneficio delle opzioni farmacologiche alternative disponibili. Se si inizia un trattamento con un oppioide, si inizia a basso dosaggio e si procede lentamente all’aumento della dose. All’inizio, si dovrebbe prescrivere la dose efficace più bassa: meno di 50 equivalenti di morfina milligrammo (MME) al giorno. Si dovrebbe anche evitare di aumentare il dosaggio sopra i 90 MME/giorno o giustificare accuratamente qualsiasi decisione al riguardo (29). Accanto alla necessità di stabilire delle Linee Guida specifiche sulla gestione del dolore nelle PwHA, un forte limite che dovrebbe essere superato per arrivare a una gestione ottimale del dolore cronico evidence-based è la riluttanza nei confronti dell’utilizzo degli oppioidi e nei confronti del loro profilo di sicurezza (30). Questo dato è in forte contraddizione con il panorama mondiale, dove si assiste a un problema di dipendenza da pain-killer oppiacei per la gestione del dolore emofilico, laddove in Italia si evidenzia un consumo di oppiacei ben al di sotto della media europea, accanto alla necessità di “istruire” le PwHA a riconoscere e a far riconoscere il dolore come un sintomo.
Il punto di vista del paziente: il dolore e la QoL
Focus del paziente è il wellbeing, con una prospettiva di lungo termine verso l’health equity che non può prescindere da tre tematiche cruciali, strettamente correlate: dolore, salute mentale e vita quotidiana (gestione della terapia, ridotta/mancata produttività).
Uno dei principali fattori che impatta negativamente sulla QoL delle PwHA è il dolore, che può manifestarsi più o meno intensamente, in acuto e in cronico ma che di sicuro rappresenta una costante nella vita delle PwH.
Si tratta di dolori articolari, acuti nel caso dell’emartrosi e cronici in presenza di artropatia emofilica, che possono manifestarsi anche contemporaneamente. È stato riportato che fino al 50% delle PwHA soffre di dolore articolare cronico che causa disabilità, impattando negativamente sulla QoL (31,32).
Inoltre, è stato stimato che il 33% delle PwH con dolore acuto e il 57% delle PwH con dolore cronico non fanno ricorso a trattamenti farmacologici e che circa il 40% delle PwH riporta che il dolore non è ben gestito (33).
Le scale maggiormente utilizzate per valutare lo stato generale di benessere delle PwHA sono la EQ-5-level EQ-5D (5D-5L) e la Short Form Health Survey (SF-36). La prima prende in considerazione cinque dimensioni: mobilità, cura di sé, attività abituali, dolore/disagio e ansia/depressione mentre la seconda si basa su 36 domande che valutano la qualità di vita correlata alla salute ma nessuna delle due scale valuta specificatamente l’impatto del dolore sulla QoL. Sono state sviluppate anche scale specifiche per le PwH: la Patient Reported Outcomes Burdens and Experiences (PROBE), questionario multidisciplinare che valuta l’impatto dell’emofilia considerando 4 domini attraverso 29 domande, l’Hemophilia Well-Being Index e l’Hemophilia-specific QoL Questionnaire for Adults (HAEMO-QoL-A) (1).
Non è quindi possibile ipotizzare di trattare il dolore seguendo un unico approccio, ma dovrebbe essere differenziato, considerando comorbidità e l’interindividualità.
Inoltre, nonostante il dolore rappresenti la dimensione che ha il più forte impatto sulla QoL con elevata variabilità intra e interpersonale, questa è sottostimata e sottovalutata sia dalle PwHA che dagli specialisti e non vi sono delle Linee Guida evidence-based specifiche per la gestione del dolore.
A valle di questo, le PwHA dovrebbero possedere un’adeguata conoscenza dell’emofilia e delle complicanze associate nonché delle opzioni terapeutiche disponibili e comprendere che con le attuali terapie disponibili a fronte di uno stesso regime posologico, l’outcome clinico può essere differente per via della risposta variabile interindividuale; inoltre, deve essere rafforzata l’importanza di monitorare l’andamento della malattia in relazione alla terapia, non soltanto in termini di tasso di ABR raggiunto, ma anche di funzionalità e di riduzione del dolore (1,7). Una scarsa aderenza alla terapia è direttamente proporzionale a un peggioramento degli outcome clinici. Questa correlazione è stata valutata tramite la scala Validated hEmophilia RegImen Treatment Adherence Scale – Prophylaxis (VERITAS-Pro) che valuta l’aderenza alla profilassi e l’ABR: chi aveva una peggiore aderenza ha riportato un maggior numero di episodi emorragici annuali rispetto a chi possedeva una buona aderenza (86% vs 62%) (34).
È necessario, perciò, che la dimensione del dolore venga inclusa tra i parametri da valutare all’interno della scheda di valutazione da compilare durante le visite, riportando anche un’apposita voce “dolore del paziente”, con numero riferibile alla Numeric Rating Scale (Scala NRS). Dovrebbe essere inoltre riportata la terapia antalgica che il paziente assume e specificare se questa è assunta dietro indicazione del medico o come automedicazione (35). Quest’ultimo caso può essere particolarmente rischioso se il paziente assume senza controllo per lunghi periodi farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), che potrebbero provocare danni anche ad altri organi e apparati.
Il punto di vista dell'economista sanitario: l’impatto sulla QoL tra QALY e outcome funzionali
Come anticipato, nell’analisi di una patologia il concetto di efficacia terapeutica deve estendersi oltre i soli esiti clinici, includendo anche una valutazione dell’impatto sulla qualità della vita del paziente. In ambito economico-sanitario, il principale indicatore utilizzato a questo scopo è rappresentato dai Quality-Adjusted Life Years (QALY), una misura che integra sia la durata che la qualità della vita guadagnata grazie a un intervento terapeutico (36).
Il concetto di QALY è stato sviluppato per superare i limiti delle metriche puramente cliniche consentendo di confrontare in modo standardizzato l’efficacia relativa di trattamenti diversi e di supportare le decisioni di allocazione delle risorse sanitarie. Il principio di base è che un anno vissuto in perfetta salute equivale a 1 QALY, mentre un anno vissuto con una qualità di vita ridotta, a causa di sintomi, disabilità o effetti collaterali, assume un valore compreso tra 0 e 1, determinato da specifici coefficienti. Per esempio, un paziente con dolore cronico e limitazioni funzionali potrebbe totalizzare 0,7 QALY per anno, mentre una condizione fortemente invalidante potrebbe abbassare ulteriormente tale valore.
Tuttavia, nell’ambito delle patologie croniche, l’utilizzo dei QALY per la valutazione del valore terapeutico presenta alcune criticità strutturali. In particolare, i modelli economici basati su questo indicatore tendono a privilegiare gli interventi che offrono benefici in termini di sopravvivenza, sottostimando invece quelli che incidono prevalentemente sulla qualità della vita. Questo è particolarmente vero in malattie come l’HA, dove l’aspettativa di vita dei pazienti si è notevolmente avvicinata a quella della popolazione generale. Nonostante ciò, la qualità della vita dei pazienti continua a essere compromessa da dolore cronico, limitazioni motorie, trattamenti frequenti e ridotta autonomia funzionale. In questi casi, l’impatto positivo delle terapie innovative rischia di non essere pienamente riconosciuto dai modelli basati sui QALY, proprio perché il guadagno in anni di vita è marginale rispetto al miglioramento delle condizioni quotidiane.
Un esempio emblematico dell’applicazione del concetto di QALY nelle patologie croniche è stato presentato al Congresso 2024 dell’ISPOR Italy Rome Chapter, in cui si è evidenziato come, in una condizione cronica a elevato burden terapeutico e assistenziale, come le malattie infiammatorie intestinali (IBD), il guadagno stimato in QALY incrementali rispetto ai comparatori, valutato attraverso modelli economici, fosse pari a +0,23 anni di vita in buona salute (SD = 0,31) per un orizzonte temporale medio di 28 anni (37). Questo dato risulta particolarmente significativo se si considera che, negli ultimi dieci anni, le IBD hanno visto un’importante evoluzione terapeutica, con l’introduzione di farmaci biologici e di nuove molecole ad alto impatto clinico. Nonostante questi avanzamenti, i modelli di costo-utilità pubblicati restituiscono incrementi medi di QALY ancora modesti. Ciò evidenzia una possibile discrepanza tra il beneficio clinico percepito nella pratica quotidiana e quanto viene effettivamente catturato dagli strumenti tradizionali di valutazione economica, che continuano a privilegiare gli esiti in termini di sopravvivenza rispetto a quelli legati al miglioramento della qualità della vita.
L’applicazione di questo concetto all’HA è particolarmente rilevante, poiché l’obiettivo della terapia non è più rappresentato solo dalla prevenzione degli episodi emorragici acuti ma anche dalla normalizzazione dell’emostasi e dal miglioramento della qualità della vita del paziente a lungo termine. Tuttavia, la rigidità dei parametri utilizzati nei modelli economici basati sui QALY e sull’Incremental Cost-Effectiveness Ratio (ICER) potrebbe non riflettere adeguatamente il valore reale delle nuove terapie per l’emofilia, che hanno dimostrato un impatto sostanziale sulla riduzione del dolore cronico, sulla mobilità e sulla partecipazione sociale dei pazienti.
Questo porta a una riflessione più ampia sulla necessità di sviluppare nuovi approcci di valutazione del valore terapeutico che non si basino esclusivamente sul paradigma della sopravvivenza e sugli incrementi marginali dei QALY, ma che considerino in modo più approfondito gli outcome funzionali e la riduzione del burden di malattia. Solo attraverso un approccio più olistico, che includa dimensioni come l’impatto sulla disabilità, la riduzione della dipendenza dai caregiver e la qualità della vita percepita, sarà possibile valutare adeguatamente il beneficio delle terapie innovative perl'HA e altre patologie croniche.
Oltre al problema legato alla misurazione degli outcome, esiste anche una questione economica rilevante connessa ai costi delle terapie innovative, in particolare di quelle geniche. Queste, infatti, comportano un investimento iniziale estremamente elevato rispetto alle terapie sostitutive convenzionali, ma devono essere valutate nell’ambito di un orizzonte temporale di lungo periodo. Il costo immediato potrebbe essere in parte compensato dal potenziale risparmio cumulativo associato alla riduzione della necessità di trattamenti cronici, delle ospedalizzazioni e del burden assistenziale, nonché dal miglioramento della qualità di vita e della produttività del paziente.
Il punto di vista del bioeticista: l’health equity tra evoluzione terapeutica e impatto sociale
La sensibilità bioetica ha imposto una crescente attenzione per i problemi del “quotidiano”, per tutti quegli aspetti dell’esistenza in cui il soggetto non solo avverte di non poter condurre una vita “normale”, ma è indotto a ritenere di avere di fronte solo un orizzonte limitato nelle aspettative e nelle possibilità relazionali. Questa vulnerabilità emotiva e psicologica, che potrebbe avere ripercussioni particolarmente negative nei pazienti con emofilia più giovani, spinge a non limitarsi a valutare l’efficacia e la sicurezza dei trattamenti, ma a prendere in considerazione anche tutte le situazioni di disagio attuali e/o eventuali che sono correlate alla patologia e alla terapia, cercando di impedire o di ridurre le condizioni che le alimentano.
L’ottimizzazione della gestione terapeutica presuppone una medicina di relazione, in cui la cura della malattia è intimamente collegata al prendersi cura del malato, proprio a partire dai problemi del quotidiano (healing relationship): il dolore e il timore del dolore, l’artropatia, il sanguinamento, l’ospedalizzazione, l’invasività delle terapie, le modalità di somministrazione del farmaco e la fiducia nella normalizzazione dell’emostasi costituiscono elementi essenziali nella valutazione di un trattamento che non aspira a garantire la semplice sopravvivenza, ma che tende a permettere di condurre una vita equiparabile a quella di una persona che non presenta un’analoga patologia, con il senso di tranquillità insito nella fiducia in questa possibilità. Quindi, il decorso della malattia va considerato nella pluralità delle diverse declinazioni esistenziali che derivano non solo dalla sicurezza e dall’efficacia della terapia, ma anche dalla sua tollerabilità in base a dove si svolge, alle modalità di somministrazione, a chi si ha vicino e alla capacità di fugare i timori per il futuro.
In questa prospettiva, l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce l’health equity “absence of unfair, avoidable or remediable differences among groups of people” e auspica che “everyone can attain their full potential for health and well-being” (38). I numerosi piani dell’Unione europea sull’assistenza sanitaria hanno più volte ribadito che “we should no longer focus on “how long” people live after diagnosis, but rather on “how well and how long” they live” (39). Anche la recente Legge di Bilancio per il 2025 ribadisce che l’umanizzazione delle cure deve costituire il principio cardine dei percorsi organizzativi e assistenziali (40).
La circolarità “normalizzazione/hemophilia free-mind/health equity” è un risvolto importante dell’human-centered approach, perché unisce all’efficacia terapeutica un evidente miglioramento della qualità di vita, ponendo al centro dell’assistenza sanitaria la persona nella sua interezza, come prevedono gli sviluppi della bioetica e il quadro normativo delle cure palliative.
Lo spazio dedicato dalla Legge di Bilancio alla Legge 2010/38 mostra quanto quest’ultima imponga un preciso vincolo giuridico a fare in modo che l’evoluzione terapeutica implichi un’ottimizzazione delle condizioni di vita del paziente. La terapia del dolore e le cure palliative rientrano nei livelli essenziali di assistenza e devono integrare l’aspetto sanitario con quello sociale per garantire l’autonomia e la dignità dei pazienti alleviando la sofferenza e tutti i problemi fisici e psicologici ad essa collegati. L’evoluzione terapeutica non può quindi limitarsi a liberare il paziente con emofilia dal timore della morte, ma deve progressivamente cercare di prevenire tutte quelle condizioni che possono continuare a renderla una più o meno grave forma di disabilità e una possibile fonte di esclusione sociale.
Conclusioni: un approccio multidisciplinare
Nell’evoluzione terapeutica che ha scandito la gestione dell’emofilia, si è passati dall’outcome della sopravvivenza a quello della safety fino ad arrivare a un outcome composito, che considera molteplici fattori che insieme contribuiscono all’ottenimento dell’obiettivo finale: l’health equity.
Da qui emerge un altro aspetto fondamentale quando si pensa all’ottimizzazione della gestione in emofilia: dal momento che è una patologia che impatta su diverse dimensioni, come tale richiede un approccio multidisciplinare che dovrebbe includere almeno le figure dell’ematologo, dell’ortopedico e del fisioterapista, ma sarebbe utile estenderlo a specialisti del dolore (specialmente per i pazienti “storici”), dentisti e psicologi (41). Questi ultimi dovrebbero possedere una specifica conoscenza della patologia, diventando così un punto pivotale di raccordo tra paziente ed ematologo relativamente alle tematiche della QoL, nella fattispecie focalizzandosi sulla componente dolorosa, sicuramente la caratteristica più rappresentativa dell’emofilia, per ridurre il gap tra QoL percepita e QoL oggettivata.
Ultimo elemento, ma non meno importante, è il ruolo del paziente stesso all’interno del percorso di cura. La PwHA deve essere parte attiva nella gestione dell’emofilia, in grado di garantire aderenza e compliance, aspetti imprescindibili per il raggiungimento degli obiettivi terapeutici. Per fare questo è necessario instaurare un dialogo tra medico e paziente che accresca consapevolezza, conoscenza e motivazione, elementi fondamentali per garantire la compliance. Inoltre, la scelta della terapia e quella del regime posologico dovrebbero essere condivise, tra paziente, caregiver e team multidisciplinare, perché dovrebbero prendere in considerazione non soltanto l’outcome clinico ma anche le preferenze, lo stile di vita e le personali necessità della PwHA.
In conclusione, l’approccio multidisciplinare non può guardare alla PwHA come destinatario di cura, ma come attore principale, differenziando l’approccio terapeutico tra paziente “storico” e giovane che porti alla normalizzazione dell’emostasi.
Non si tratta solo di un’esigenza etica, ma di un vincolo giuridico perché la Legge n. 38 del 15 marzo 2010 (41) ha messo in luce come la terapia del dolore, oltre alle situazioni estreme delle cure palliative per i malati terminali, riguardi “il malato fragile con patologie croniche”. La portata innovativa, spesso trascurata, di questa normativa è aver delineato un nuovo paradigma di cura capace di garantire una risposta positiva a quei “nuovi” bisogni che “richiedono un approccio multiprofessionale e interdisciplinare e un’attenzione costante ai bisogni fisici, psicologici e sociali dei malati e dei loro familiari, che si concretizzano in una relazione di cura capace di favorire la condivisione del Piano Assistenziale Individuale (PAI)”, riducendo la sofferenza legata ai sintomi, migliorando la qualità di vita e riducendo “l’intensività inappropriata” (42).
Acknowledgements
This manuscript reports the discussion that took place during two non-promotional meetings organized and funded by Sobi. The opinions expressed represent the views and a summary of the discussions of the participants. S.C.F. provided the medical writing, an agency specialized in medical events and communications. The Authors reviewed and approved the content of this article. Sobi and Sanofi reviewed and provided the feedback on this article. The Authors retained full editorial control of the article and provided final approval on all content, in accordance with the Good Publication Practice (GPP) 2022 guidelines (https://www.ismpp.org/gpp-2022).
The Authors thank Nicoletta Martone (Governmental Affairs & Patient Access Associate Director Italy, Greece, Cyprus & Malta) and Chiara Malinverno (Medical Advisor Hemophilia) of Sobi Italy for organizing and contributing to the meeting.
Other information
Indirizzo per la corrispondenza:
Valentina Drago
email: valentinadrago@essecieffe.it
Disclosures
Conflict of interest: MNDDM declares financial support for research from the following pharmaceutical companies: Pfizer, Sobi, Takeda, Bayer, Biomarin, CSL Behring; VD, SA, CM declare no conflict of interest; in the last 2 years AM received honoraria as speaker or consultant from the following pharmaceutical companies: Sobi, Jazz Pharma, Angelini, Astrazeneca, MSD, J&J and other pharmaceutical companies; EFG has participated in advisory boards and speaker bureaus supported by BioMarin, Novo Nordisk, Roche, Takeda, CSL, Sobi on behalf of FedEmo. No personal fees or funding were received. In the last 2 years FD received honoraria as speaker or consultant from the following pharmaceutical companies: Sifi, Eli Lilly, Daiichi-Sankyo; DF received honoraria as speaker or consultant from the following pharmaceutical companies: Alfasigma, Angelini, Abiogen, Agave, Chiesi, Daiichi-Sankyo, Istituto Gentili, Janssen, Grunenthal, Lundbeck, Molteni, Sandoz, Sobi, Viatris, Zambon.
Financial support: S.C.F. provided the organizational and scientific support to medical writing, with the financial support of Sobi.
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