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Glob Reg Health Technol Assess 2022; 9 (Suppl. 1): 17-26

ISSN 2283-5733 | DOI: 10.33393/grhta.2022.2391

REVIEW

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Opportunità cliniche e impatto sul sistema sanitario di un trattamento ottimale del paziente post-sindrome coronarica acuta

Dipartimento di Scienze Biomediche Avanzate, Università degli Studi di Napoli Federico II, Napoli - Italy

Clinical opportunities and healthcare impact of optimal treatment in the post-ACS patient

Despite the improvement of revascularization procedures, patients with acute coronary syndrome often develop recurrent ischemic events, suggesting a high residual cardiovascular risk in these patients, which requires a strict clinical monitoring as well as an optimal control of modifiable risk factors.

To this aim, an optimal management of index event and appropriate preventive measures are equally important. Hospital care by cardiologists should be followed by outpatient management by general practitioners, as established by specific diagnostic and therapeutic pathways, which should warrant an optimal support to the patient. A strict collaboration between hospital and primary care is crucial to monitor and adapt drug therapy after the acute event and improve adherence of the patients to prescribed treatments and implementation of life-style modifications, with benefits also in term of cost-effectiveness. In this context, individualized rehabilitation programs should also be offered to patients with acute coronary syndromes, in order to improve survival and quality of life.

Corresponding author:
Giovanni Esposito
Divisione di Cardiologia,
Dipartimento di Scienze Biomediche Avanzate
Università degli Studi di Napoli Federico II
Via S. Pansini 5
80131 Napoli - Italy
espogiov@unina.it

Global & Regional Health Technology Assessment - ISSN 2283-5733 - www.aboutscience.eu/grhta

© 2022 The Authors. This article is published by AboutScience and licensed under Creative Commons Attribution-NonCommercial 4.0 International (CC BY-NC 4.0).

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Introduzione

Negli ultimi decenni le procedure di rivascolarizzazione miocardica hanno offerto sempre maggiore efficacia e sicurezza ai pazienti con manifestazione acuta o cronica di malattia aterosclerotica coronarica (CAD). I progressi tecnologici e delle terapie farmacologiche aggiuntive hanno comportato un miglioramento della sopravvivenza, della prevenzione dell’infarto miocardico acuto (IMA), la riduzione dei sintomi e una migliore qualità di vita. Tuttavia, eventi ischemici ricorrenti sono frequenti dopo una sindrome coronarica acuta (SCA) sia a causa di trombosi o restenosi dello stent che coinvolgono quindi lesioni già trattate, sia per la progressione ed evoluzione della malattia aterosclerotica nativa. Si stima che circa 1 su 5 pazienti svilupperà un nuovo evento cardiovascolare (CV) maggiore nel primo anno dopo un IMA, indicando un notevole rischio residuo e quindi la necessità di un controllo clinico attento oltre che di una gestione ottimale dei fattori di rischio CV.

Nell’ambito dello studio REACH, un ampio registro di 45.227 pazienti con CAD, malattia cerebrovascolare, arteriopatia periferica (PAD) o multipli fattori di rischio seguiti per circa 4 anni, gli eventi ricorrenti interessavano una percentuale di coloro che presentavano al basale un evento ischemico pari a circa 6% a 12 mesi e 17% a 48 mesi (1).

In un’analisi retrospettiva del Registro nazionale svedese su circa 98.000 pazienti con IMA nel periodo 2006-2011 e viventi a 1 settimana dalla dimissione, l’incidenza di IMA/ictus/morte CV è risultata di circa il 18% a 1 anno, un dato che variava con l’età raggiungendo il 30% nei pazienti >80 anni (2). Inoltre, i pazienti definibili ad alto rischio [diabete, insufficienza renale cronica (IRC), vasculopatia periferica, CABG, ictus, scompenso cardiaco] mostravano un’incidenza oltre 3 volte superiore, soprattutto se anziani. Anche i pazienti che non andavano incontro a IMA/ictus/morte CV nel primo anno correvano un rischio del 20% di sviluppare un simile evento nei successivi 36 mesi (2).

In uno studio osservazionale americano su una popolazione di oltre 26.000 pazienti anziani (>66 anni) con IMA si osservava una recidiva di IMA pari a 7,2% a 1 anno e >14% a 6 anni, una mortalità pari al 32% a 1 anno e al 69% a 6 anni e una frequenza dell’endpoint composito di IMA/ictus/angina instabile/nuova rivascolarizzazione pari al 16,9% e 27,5% rispettivamente a 1 e 6 anni. Inoltre la presenza di diabete mellito era un predittore indipendente sia di recidiva di IMA sia di necessità di rivascolarizzazione coronarica (3).

Questi dati suggeriscono un controllo subottimale dei fattori di rischio modificabili: in particolare l’uso dei farmaci raccomandati dalle linee guida per la prevenzione secondaria decresce nel tempo dopo la rivascolarizzazione coronarica, contribuendo a peggiorare la prognosi a lungo termine (4,5). È dunque fondamentale che i pazienti siano opportunamente monitorati dopo la dimissione e che vengano loro prescritte adeguate terapie di supporto e riabilitazione. Infatti, tra le cause più importanti di alte recidive dopo SCA c’è sicuramente la scarsa aderenza alla terapia farmacologica, un’insufficiente modifica dello stile di vita e una deficitaria presa in carico dei pazienti.

Uno studio dei dati della regione Lombardia su oltre 125.000 pazienti con diagnosi di SCA sopravvissuti all’evento indice tra il 2009 e il 2015, ha rilevato che un’adeguata aderenza alla terapia farmacologica riduceva il rischio di esiti CV a lungo termine dal 3% al 13% circa a seconda del trattamento utilizzato (6). Nonostante fosse raccomandato di effettuare almeno una visita cardiologica di controllo entro il primo anno, il 32% dei pazienti non aveva seguito tale indicazione. Analogamente, il 23% dei pazienti non aveva eseguito un ECG nel primo anno post-SCA. Infine, solo circa il 20% dei pazienti aveva iniziato un percorso riabilitativo in regime ospedaliero entro 2 mesi dalla dimissione indice, percorso che si era associato a una diminuzione del rischio di esiti CV nel follow-up di circa il 30% rispetto ai soggetti che non lo avevano effettuato. Ne consegue che i pazienti sottoposti a un più attento monitoraggio dopo il ricovero e maggiormente aderenti alle terapie prescritte hanno un rischio ridotto di sperimentare eventi CV a lungo termine.

Nel registro BLITZ-4 sono stati coinvolti 163 Centri italiani e arruolati >11.000 pazienti con IMA nel 2009-2010 (7). Dopo 6 mesi, nonostante un’elevata aderenza alle terapie (circa 90%), il raggiungimento dei target pressori, glicemici e di colesterolo e le modifiche dello stile di vita (attività fisica regolare, alimentazione adeguata e interruzione del fumo) erano ottimali in una bassa percentuale di pazienti. L’esecuzione di una visita cardiologica dopo la dimissione e la partecipazione a programmi di riabilitazione cardiologica erano importanti predittori di maggiore successo al fine di ottenere le modifiche dello stile di vita, sottolineando la rilevanza di programmi dedicati per la prevenzione secondaria.

Pertanto, nei pazienti con SCA, soggetti a rischio CV molto elevato, è importante un trattamento completo e ottimale dell’evento indice (8-11), ma è altrettanto fondamentale instaurare adeguate strategie di prevenzione secondaria (9-11).

Percorsi assistenziali post-SCA

Negli ultimi decenni si sono verificati significativi miglioramenti nella gestione dei pazienti con IMA, che hanno comportato un’importante e progressiva riduzione della mortalità intraospedaliera. Tuttavia, l’andamento della mortalità post-ospedaliera nel primo mese e primo anno è risultato sorprendentemente stabile o addirittura in aumento secondo diversi studi europei e nordamericani. Ne deriva che la prevenzione secondaria assume un ruolo di notevole importanza per ottimizzare la prognosi dei pazienti post-SCA. Un’adeguata applicazione delle strategie di prevenzione secondaria in pazienti con cardiopatia ischemica riesce a ritardare la progressione della malattia aterosclerotica, ridurre la mortalità e l’incidenza di nuovi eventi clinici e controllarne i sintomi migliorando la qualità di vita (9,11,12). Conseguentemente, è necessario fare ogni sforzo possibile per organizzare percorsi finalizzati a centrare questo obiettivo nel contesto delle risorse disponibili. A tal fine, gli specialisti dei Centri ospedalieri, insieme a quelli del territorio e ai medici di medicina generale (MMG) devono agire in sinergia e collaborazione continua per coordinare l’adeguata presa in carico del paziente post-SCA, garantendo così un appropriato follow-up ambulatoriale. In quest’ottica, i percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali (PDTA) hanno un ruolo fondamentale, permettendo infatti di:

a) migliorare l’efficienza delle organizzazioni in termini di riduzione e razionalizzazione dei costi e/o del consumo di risorse, insieme a un aumento della qualità delle cure e della soddisfazione del paziente e a una riduzione del rischio clinico associato agli interventi,

b) facilitare la comunicazione e il coordinamento delle diverse professionalità coinvolte nel percorso di cura e/o assistenza,

c) monitorare e valutare le attività svolte e i risultati ottenuti in un’ottica di miglioramento continuo.

Gli specifici obiettivi di un PDTA per i pazienti post-SCA includono:

  • migliorare l’adesione alle modifiche dello stile di vita e alle terapie consigliate;
  • identificare (e trattare) precocemente i fattori prognostici negativi ed eventuali complicanze (ad es. disfunzione ventricolare sinistra, diabete mellito, disfunzione renale, arteriopatia periferica, malattia multivasale con rivascolarizzazione incompleta) oltre ai fattori di rischio trombotico per nuove recidive ischemiche;
  • favorire il raggiungimento dei target terapeutici previsti dalle linee guida;
  • assicurare la continuità assistenziale dal momento della dimissione ospedaliera alla presa in carico nel territorio;
  • escludere i pazienti affetti da recente SCA dalle liste di attesa ordinarie, prevedendo percorsi preferenziali;
  • ridurre il ricorso al Pronto soccorso ed eventualmente a ricoveri ripetuti;
  • disporre di dati relativi alla popolazione trattata per SCA nella specifica area territoriale di competenza, inerenti la fase post-acuta;
  • valutare l’impatto di tale modello assistenziale sulla morbilità e mortalità CV.

Dunque, l’obiettivo è creare una vera e propria rete che abbia nel MMG un supporto fondamentale. A seconda delle risorse disponibili in loco, l’organizzazione della rete potrà variare strutturalmente, ma dovrà mirare a uno standard funzionale uniforme per raggiungere gli obiettivi diagnostico-terapeutici e di prevenzione indispensabili. La realizzazione dei dipartimenti cardiologici ospedale-territorio permetterebbe un’ottimale erogazione dei servizi per acuti e post-acuti utilizzando al meglio le risorse disponibili (12).

Lettera di dimissione

Nei pazienti con SCA, il momento della dimissione ospedaliera rappresenta un passaggio fondamentale per le scelte gestionali successive. La lettera di dimissione deve contenere tutti gli elementi essenziali che descrivono la diagnosi specifica, il decorso ospedaliero, i fattori di rischio e le comorbilità dello specifico paziente così come i principali target e suggerimenti clinici per permettere un’adeguata stratificazione del rischio, e definire il percorso appropriato, il tipo e le tempistiche dei successivi controlli.

Ottimizzazione della terapia ipolipemizzante in pazienti con SCA

I pazienti con SCA sono ad alto rischio di eventi ricorrenti poiché la reazione infiammatoria sistemica può determinare la crescita delle placche aterosclerotiche e la destabilizzazione di lesioni non-culprit che sono più spesso placche vulnerabili rispetto ai pazienti cronici (13). Pertanto in questi pazienti la prevenzione secondaria è fondamentale per migliorare la prognosi a breve e lungo termine.

Le lipoproteine aterogene, in particolare le lipoproteine a bassa densità che trasportano colesterolo (LDL-C), hanno un ruolo cruciale nel determinismo della malattia aterosclerotica CV (14,15). Un importante e ampio studio presentato nel contesto di un Documento di Consenso europeo ha analizzato numerosi studi genetici e farmacologici che dimostravano inequivocabilmente che le LDL-C hanno un ruolo causale nella CAD e che la loro significativa riduzione abbassa il rischio CV globale (15).

La riduzione intensiva dei livelli di LDL-C ha dimostrato di prevenire la progressione dell’aterosclerosi e migliorare la prognosi dei pazienti, con un beneficio clinico proporzionale all’entità della riduzione (16). Un beneficio precoce è stato dimostrato quando il trattamento intensivo con statine veniva iniziato dopo l’episodio di SCA (17,18). Non c’è quindi dubbio che le statine abbiano un ruolo benefico e sono numerose le evidenze, anche da studi di imaging, che dimostrano che statine potenti ad alto dosaggio, come rosuvastatina e atorvastatina, possano determinare effetti non solo sui livelli di LDL-C ma anche sulle placche stesse, riducendone il volume e il core lipidico, aumentando lo spessore del cappuccio fibroso e riducendo l’infiammazione, tutti effetti che oggi definiamo di stabilizzazione delle placche aterosclerotiche (13). Inoltre, un’implementazione della terapia farmacologica con ipolipemizzanti diversi dalle statine e in aggiunta a queste ultime ha chiaramente dimostrato un ulteriore beneficio clinico in pazienti post-SCA, come riscontrato nello studio IMPROVE-IT dall’aggiunta di ezetimibe (19). Negli ultimi anni l’armamentario dei farmaci ipolipemizzanti si è ulteriormente ampliato grazie all’introduzione di farmaci inibitori della proproteina convertasi subtilisina/kexina 9 (PCSK9) (20). La glicoproteina PCSK9 si lega al recettore delle LDL (LDLR) sulla superficie degli epatociti o di altre cellule come i macrofagi, determinandone la degradazione a livello lisosomiale, bloccando quindi la sua interazione con le LDL-C e la successiva internalizzazione ed endocitosi clatrina-dipendente. Gli attuali anticorpi monoclonali umani inibitori della PCSK9 pertanto impediscono l’interazione della glicoproteina con il LDLR, determinando un accumulo di LDLR sulla superficie cellulare con conseguente aumentata clearance di LDL-C e riduzione dei suoi livelli circolanti.

Lo studio FOURIER ha arruolato 27.564 pazienti con malattia aterosclerotica (storia di IMA, ictus o PAD sintomatica) e livelli di LDL-C di almeno 1,8 mmol/L (70 mg/dL) in trattamento con statine, che sono stati randomizzati a ricevere evolocumab 140 mg ogni 2 settimane o 420 mg 1 volta al mese o placebo per un periodo di follow-up medio di 2,2 anni (21). Il gruppo evolocumab ha raggiunto un livello mediano di LDL-C di circa 30 mg/dL rispetto a 92 mg/dL del gruppo placebo dopo 48 settimane di trattamento, ma soprattutto ha presentato una significativa riduzione dell’endpoint primario (9,8% vs 11,3%, hazard ratio 0,85, intervallo di confidenza 95% 0,79-0,92; p<0,001), rappresentato da un composito di morte CV, IMA, ictus, ospedalizzazione per angina instabile, o rivascolarizzazione coronarica. Inoltre è stata osservata una riduzione del 20% del rischio relativo di morte CV, IMA e ictus (endpoint secondario principale). Negli endpoint individuali, evolocumab ha ridotto il rischio di IMA del 27%, di ictus del 21% e di rivascolarizzazione coronarica del 22%, ma non si è riscontrata alcuna differenza significativa della mortalità CV o per tutte le cause (21).

Nel contesto specifico dei pazienti post-SCA, lo studio ODYSSEY OUTCOMES ha arruolato 18.924 pazienti con recente SCA (nei precedenti 1-12 mesi) in terapia con alte dosi di statine da almeno 2 settimane e con livelli di LDL-C ≥1,8 mmol/L (70 mg/dL), colesterolo non-HDL ≥2,6 mmol/L (100 mg/dL) o apolipoproteina B ≥0,0016 mmol/L (80 mg/dL), che sono stati randomizzati ad alirocumab o placebo somministrati ogni 2 settimane (22). Alirocumab ha ridotto del 15% il rischio relativo dell’endpoint composito di morte CV, IMA non fatale, ictus ischemico o ospedalizzazione per angina instabile (hazard ratio 0,85, intervallo di confidenza 95% 0,78-0,93; p = 0,0003) a un follow-up medio di 3,3 anni, ma più importante è che lo studio ha dimostrato anche che alirocumab si associava a una riduzione della mortalità per tutte le cause (22).

Nonostante l’ampia letteratura scientifica a supporto di un trattamento precoce e intensivo, nella pratica clinica si osservano ancora un utilizzo subottimale delle terapie ipolipemizzanti e un’alta percentuale di pazienti che non raggiungono i target ottimali (23,24). L’ampio studio europeo EUROASPIRE V, condotto su oltre 7.800 pazienti con SCA in 130 Centri di 27 Paesi, ha mostrato come una vasta percentuale di pazienti a 6 mesi dopo l’evento non sia a target (complessivamente 71% e in Italia 63%), pur applicando i precedenti livelli target di LDL-C (<70 mg/dL) (23).

Uno studio più ampio, l’ICLPS, che ha coinvolto 452 Centri in 18 Paesi non solo europei e più di 9.000 pazienti, ha evidenziato che circa il 68% dei pazienti a rischio CV molto alto non era a target di LDL-C (24).

Analogamente, nel più recente studio DA VINCI si è osservato che in circa 2.000 pazienti in prevenzione secondaria il 61% non era a target secondo le linee guida 2016 della European Society of Cardiology (ESC), percentuale che saliva all’82% considerando le ultime linee guida 2019 (25). Inoltre si è osservato che il raggiungimento del target era fortemente influenzato dalla terapia, che nella maggior parte dei casi richiedeva alti dosaggi di statina in combinazione con ezetimibe e PCSK9 inibitore (25).

Come stabilito dalle ultime linee guida ESC, i pazienti post-SCA rientrano nella categoria di pazienti a rischio CV molto alto e richiedono particolare attenzione, mirando a target di LDL-C <55 mg/dL (raccomandazione I, A) o addirittura <40 mg/dL in caso di secondo evento CV entro 2 anni dal primo (raccomandazione IIb, B) (26). Tali ambiziosi obiettivi richiedono inevitabilmente terapie farmacologiche spesso più aggressive, come sottolineato anche in un recente documento della Società Italiana di Cardiologia Invasiva (SICI-GISE) (20), e soprattutto un attento follow-up.

Ottimizzazione della terapia antitrombotica in pazienti con SCA

L’attivazione e l’aggregazione piastrinica rappresentano l’elemento fisiopatologico cardine della trombosi coronarica e dunque della SCA. La doppia terapia antiaggregante (dual anti-platelet therapy, DAPT) con acido acetilsalicilico (ASA) e un inibitore del recettore piastrinico P2Y12 e/o angioplastica coronarica (PCI) è il trattamento di base dei pazienti con SCA (27,28). L’obiettivo della DAPT è prevenire gli eventi ischemici limitando i rischi di sanguinamento, pertanto la durata di tale terapia deve essere guidata dal bilanciamento tra la prevenzione delle complicanze ischemiche e il rischio di sanguinamento (27,28). Le linee guida ESC raccomandano di considerare una durata di 6 mesi per i pazienti stabili e di 12 mesi per quelli con SCA (9-11,27). Tuttavia, non esiste una strategia applicabile a tutti i pazienti, quindi la decisione va personalizzata sulla base del rischio nel singolo soggetto. Ad esempio, i pazienti definiti ad alto rischio di sanguinamento (high bleed­ing risk, HBR) dovrebbero ricevere terapie più brevi, anche solo 1 mese di DAPT (9-11,27-29). Al contrario, per pazienti a basso rischio emorragico e ad alto rischio ischemico è possibile considerare strategie più aggressive (uso dei più potenti ticagrelor o prasugrel rispetto a clopidogrel) e prolungate (>12 mesi) (9-11,27,28). Negli ultimi anni, inoltre, si è riscontrato un grande interesse nella gestione della durata e composizione della DAPT, così come di possibili alternative a questa strategia, come la monoterapia antipiastrinica con inibitore P2Y12 (sospensione precoce dell’ASA) o l’aggiunta ad ASA di un anticoagulante a basse dosi (doppio pathway di inibizione, DPI).

In quest’ottica, diventa fondamentale un adeguato follow-up dei pazienti post-SCA per valutare con attenzione l’evoluzione della modifica dei fattori di rischio e l’eventuale insorgenza di nuove complicanze, così da poter rivalutare criticamente la decisione presa al momento della dimissione. Un’utile strategia, raccomandata dalle linee guida, è il calcolare uno score di sanguinamento noto come PRECISE-DAPT (score semplice con 5 variabili: età, storia di sanguinamento, livello di emoglobina, clearance della creatinina e conta leucocitaria), somministrando una terapia di durata standard a tutti coloro che presentano un basso rischio (score <25) e una DAPT di durata breve per quelli ad alto rischio (score ≥25) (27).

Sebbene diversi dati suggeriscano la possibilità di abbreviare la DAPT, i risultati di importanti studi hanno evidenziato che una DAPT a lungo termine, benché associata a un lieve aumento del rischio di sanguinamento, può ridurre significativamente il rischio di eventi ischemici. Nel DAPT trial, ad esempio, in cui i pazienti sottoposti a PCI e DAPT per 1 anno e senza eventi ischemici o emorragici proseguivano la terapia (ASA + clopidogrel o prasugrel) fino a circa 33 mesi (30,31), tramite uno score di rischio denominato DAPT score, che incorpora i fattori di rischio di sanguinamento e di eventi ischemici, sono stati identificati (DAPT score ≥2) i pazienti che maggiormente beneficiano di un prolungamento a lungo termine della DAPT (31,32).

Inoltre, ci sono diverse categorie di pazienti in cui un alto rischio ischemico può comportare la decisione di intensificare la terapia antitrombotica. In particolare i pazienti post-SCA, e ancor più specificamente quelli con storia di IMA, rappresentano un esempio importante, anche perché spesso hanno molteplici fattori di rischio addizionali, quali età avanzata, familiarità, ipertensione arteriosa, diabete, stile di vita sedentario, abitudine o dipendenza da fumo di tabacco e alimentazione ricca di grassi e carboidrati. Un importante studio (PEGASUS-TIMI 54) ha ulteriormente corroborato l’evidenza in favore di una terapia più aggressiva in questi pazienti (33). In oltre 21.000 pazienti con pregresso IMA (da 1 a 3 anni prima dell’arruolamento) e in assenza di rilevante rischio di sanguinamento, l’aggiunta di ticagrelor 60 mg oppure 90 mg 2 volte/die (bid) alla monoterapia con ASA a lungo termine ha ridotto gli eventi ischemici, aumentando però i sanguinamenti non-fatali (33). La strategia di 60 mg bid appariva avere il profilo rischio/beneficio migliore ed è quella poi approvata per questa categoria di pazienti. Un’analisi di sottogruppo ha rilevato che il vantaggio maggiore di ticagrelor 60 mg bid (migliore rapporto rischio/beneficio ottenuto da una maggiore riduzione di eventi ischemici) veniva riscontrato in pazienti a più alto rischio ischemico, come quelli con diabete, PAD o coronaropatia multivasale (33). Attualmente, in Europa e in Italia (con rimborso del Sistema Sanitario Nazionale) l’indicazione di ticagrelor è per pazienti adulti con storia di IMA e alto rischio di sviluppare un nuovo evento aterotrombotico, entro 2 anni dall’infarto ed entro 1 anno dalla sospensione del precedente trattamento con un inibitore del recettore per l’ADP (incluso ticagrelor 90 mg). Un sotto-studio del PEGASUS, ristretto alla popolazione con questa indicazione, ha dimostrato che ticagrelor 60 mg bid riduceva il rischio di morte CV, IM e ictus, mortalità coronarica, mortalità CV e mortalità per tutte le cause; in particolare la mortalità CV era ridotta del 29% (34).

A complicare ulteriormente lo scenario delle strategie antitrombotiche possibili, vi sono anche strategie alternative alla DAPT seguita da monoterapia con ASA, riportate di seguito.

A) Monoterapia con inibitori del P2Y12 in pazienti sottoposti a PCI

L’ASA a basse dosi è il caposaldo della terapia antitrombotica da molti decenni (35). Nel corso degli anni le nuove strategie antitrombotiche sono state testate in combinazione all’ASA, ma quest’ultima si associa a un certo rischio di sanguinamento, soprattutto gastrointestinale, e le strategie di combinazione aumentano ulteriormente tale rischio. In presenza dei nuovi inibitori del P2Y12, si è ipotizzato di poter sospendere l’ASA basandosi sul presupposto che questo inibitore da solo possa essere sufficiente a prevenire le complicanze ischemiche e al tempo stesso ridurre i rischi di sanguinamento (35). Questa ipotesi è stata testata in circa 16.000 pazienti sottoposti a PCI nell’ambito del GLOBAL-LEADERS, uno studio di superiorità, randomizzato e open-label, in cui tutti i pazienti (acuti o elettivi) ricevevano 1 mese di DAPT e poi proseguivano fino a 2 anni con monoterapia di ticagrelor rispetto alla terapia standard (DAPT con ticagrelor o clopidogrel per 6-12 mesi seguita da monoterapia con ASA) (36). Lo studio ha fallito nel dimostrare la superiorità di questa strategia terapeutica ai fini di ridurre l’endpoint composito di morte e nuovo IM non-fatale a 2 anni, ma sono stati osservati alcuni importanti segnali positivi in altri endpoint e in specifici sottogruppi di pazienti (36,37). In seguito, lo studio TWILIGHT ha arruolato circa 9.000 pazienti ad alto rischio e sottoposti a PCI che ricevevano DAPT (ASA + ticagrelor) per 3 mesi e poi proseguivano con DAPT o monoterapia di ticagrelor per 1 anno (totale 15 mesi). Lo studio ha dimostrato una significativa riduzione dei sanguinamenti clinicamente rilevanti senza aumento del rischio di morte, IM o ictus (38-40). Ulteriori dati a favore di una riduzione degli eventi emorragici sono emersi anche nel recente studio TICO, in cui la monoterapia con ticagrelor dopo 3 mesi di DAPT è stata confrontata con DAPT standard di 12 mesi in pazienti con SCA (41). Anche altri studi con clopidogrel, come i trial clinici randomizzati SMART-CHOICE (77% con clopidogrel e 23% con ticagrelor o prasugrel) e STOPDAPT-2, hanno descritto risultati promettenti in termini di sicurezza ed efficacia (42,43). Complessivamente, i dati analizzati in una recente metanalisi supportano la sicurezza ed efficacia di una breve DAPT seguita da una monoterapia con inibitore P2Y12 (44). Inoltre, un altro recente studio coreano (HOST-EXAM) ha mostrato come dopo PCI la monoterapia con clopidogrel dopo sospensione della DAPT potrebbe essere preferibile all’ASA per ridurre eventi ischemici e di sanguinamento (45). Tuttavia, ulteriori evidenze e specifiche raccomandazioni delle future linee guida aiuteranno a capire come selezionare le varie strategie nella pratica clinica.

B) Fibrillazione atriale: duplice o triplice terapia antitrombotica

I pazienti con fibrillazione atriale (FA) che richiedono PCI rivestono un particolare interesse per l’alto rischio di sanguinamento legato alla necessità di associare la terapia anticoagulante alla DAPT. In questi pazienti, anche dopo SCA, è raccomandata la DAPT con ASA + clopidogrel (27); tuttavia le recenti evidenze mostrano che sia preferibile l’uso di anticoagulanti orali diretti e la sospensione precoce dell’ASA dimettendo il paziente con una terapia duplice (NOAC + clopidogrel), anziché triplice, al fine di limitare le complicanze emorragiche. Sebbene complessivamente tale strategia si associ a una riduzione dei sanguinamenti, si è anche osservato un preoccupante aumento significativo del rischio di trombosi dello stent e un aumento numerico degli eventi di IMA. Questo dato suggerisce pertanto la necessità di individualizzare la terapia sulla base del rischio individuale e riservare ancora una certa durata (probabilmente almeno 1 mese) ai pazienti che, in assenza di un eccessivo rischio di sanguinamento, presentano noti fattori di rischio ischemico (46,47).

C) De-escalation a DAPT con clopidogrel post-SCA

Sebbene le linee guida raccomandino una DAPT preferenziale con ticagrelor o prasugrel post-SCA, negli ultimi anni alcuni studi hanno testato la possibilità di sostituire questi farmaci con clopidogrel precocemente ed eventualmente in modo guidato (sulla base di test di funzionalità piastrinica o genetici per escludere una non responsività a clopidogrel) (48). Questo approccio è soprattutto basato sull’ipotesi che i più potenti inibitori di P2Y12 servano prevalentemente nella prima fase post-SCA per proteggere dagli eventi ischemici, mentre lo switch a clopidogrel ridurrebbe i sanguinamenti che sono più frequenti con questi farmaci e che si presentano soprattutto nel follow-up. Nel mondo reale questa pratica accade frequentemente per vari motivi tra cui i costi, la riduzione del rischio emorragico o il verificarsi di emorragie o di effetti collaterali come la dispnea correlata a ticagrelor (49).

D) Doppia via di inibizione (antiaggregante + anticoagulante)

L’associazione di un antipiastrinico e un anticoagulante mira a bloccare due vie che portano alla formazione del trombo per ottenere un effetto sinergico (50). Questa strategia è stata studiata nell’ambito dei pazienti con FA sottoposti a PCI – come sopra descritto – ma anche nell’ambito delle SCA, SCC o malattia aterosclerotica vascolare (50). Sebbene i dati sui pazienti con SCA siano ancora limitati e insufficienti a modificare l’attuale pratica clinica, ci sono importanti evidenze per i pazienti con malattia aterosclerotica stabile. Specificamente, lo studio COMPASS ha arruolato oltre 27.000 pazienti con storia di malattia aterosclerotica stabile (CAD e/o PAD), testando a lungo termine in prevenzione secondaria 2 strategie (rivaroxaban 5 mg bid in monoterapia e rivaroxaban 2,5 mg bid + ASA) rispetto allo standard con ASA 100 mg in monoterapia (51-53). Lo studio è stato interrotto per superiorità del beneficio del gruppo rivaroxaban + ASA rispetto ad ASA in monoterapia, consistente in una significativa riduzione del 24% dell’endpoint primario (composito di morte CV, ictus o IMA) dopo un follow-up medio di 23 mesi. Si osservava un aumento significativo dei sanguinamenti maggiori (3,1% vs 1,9%) prevalentemente gastrointestinali che richiedevano ospedalizzazione, ma non vi era un significativo incremento delle emorragie intracraniche o fatali. In un sotto-studio si evidenziava che il maggiore beneficio era riscontrabile in pazienti con almeno 2 letti vascolari malati, diabetici, con scompenso cardiaco o con insufficienza renale (54). Inoltre, il beneficio era consistente in entrambi i gruppi dei pazienti CAD e PAD (52,53). Ciò ha portato, nel 2018, all’approvazione di questa nuova strategia terapeutica da parte dell’Autorità europea (EMA) e americana (FDA) nonché alla raccomandazione da parte delle linee guida ESC (9).

In conclusione, la terapia antitrombotica post-SCA richiede un’accurata valutazione dei fattori di rischio ischemico ed emorragico e una valutazione/rivalutazione dinamica, che possono essere assicurate solo da un adeguato follow-up contestualizzato in un ben definito percorso assistenziale post-dimissione.

Riabilitazione cardiovascolare in pazienti con SCA

La Cardiologia Preventiva e Riabilitativa rappresenta la specialità della cardiologia clinica dedicata alla cura del paziente cardiopatico post-acuto e cronico con l’obiettivo di migliorarne la qualità di vita e la prognosi mediante la prosecuzione della stratificazione prognostica, la stabilizzazione clinica, l’ottimizzazione della terapia farmacologica e non farmacologica, la gestione delle comorbilità, il trattamento delle disabilità, la prosecuzione e il rinforzo degli interventi di prevenzione secondaria e il mantenimento dell’aderenza terapeutica (55).

I centri di Cardiologia Riabilitativa (CR) hanno un ruolo fondamentale nella gestione della prevenzione secondaria potendo erogare un intervento strutturato rivolto specialmente alla fase post-acuta della malattia, ma che prevede anche percorsi specifici per la prevenzione secondaria a lungo termine. Ovviamente, pur in assenza di CR a livello territoriale è importante organizzare reti territoriali e percorsi assistenziali capaci di assicurare un’adeguata gestione della fase post-SCA.

È importante sottolineare che il ruolo della CR non è semplicemente quello di prescrivere e attuare programmi di training fisico, ma piuttosto di programmare un’azione multidisciplinare diretta da un cardiologo, alla cui realizzazione collaborano altri operatori sanitari quali l’infermiere, il fisioterapista, lo psicologo e il dietista, a cui eventualmente possono aggiungersi altre professionalità, quali l’assistente sociale e i diversi medici specialisti per la gestione ottimale delle comorbilità (55). L’efficacia e la rilevanza della CR sono confermate da dati scientifici e dalle raccomandazioni delle linee guida, secondo le quali lo svolgimento di un programma di Cardiologia Preventiva e Riabilitativa costituisce una raccomandazione di classe I (10,11,56). Ad esempio, due studi italiani recenti, uno condotto su pazienti con cardiopatia ischemica in un contesto clinico riabilitativo ambulatoriale (57) e l’altro basato sull’analisi di dati amministrativi e condotto in un contesto clinico riabilitativo ospedaliero su pazienti con scompenso cardiaco (58), dimostrano un significativo miglioramento della sopravvivenza e una riduzione delle ospedalizzazioni. Anche il recentissimo studio clinico multicentrico randomizzato REHAB-HF, che ha arruolato 349 pazienti anziani ospedalizzati per scompenso cardiaco, ha evidenziato che un programma personalizzato di attività fisica comprendente 4 domini (forza, equilibrio, mobilità e resistenza), iniziato precocemente e continuato per 3 mesi, determina un significativo miglioramento dell’endpoint primario punteggio della Short Physical Performance Battery (SPPB) (59).

Ciononostante, persiste ancora oggi una notevole criticità per la CR rappresentata dal basso referral rate dei pazienti cardiopatici ai programmi di CR, che nella realtà italiana non supera il 30% (60).

Aderenza alla terapia farmacologica e strategie di prevenzione secondaria non farmacologica

È fondamentale stabilire attori e modelli organizzativi della rete mirata alla gestione della fase post-SCA, così da garantire interventi di riabilitazione cardiologica, counseling/informazione sanitaria su obesità, diabete mellito, attività fisica regolare, alimentazione e anche percorsi strutturati e dedicati al tabagismo e valutazioni di follow-up con complessità crescente a seconda del livello di rischio post-SCA, nonché interventi per ottimizzare la terapia e relativa aderenza.

La prevenzione secondaria, farmacologica e non, e l’aderenza a queste strategie ricoprono un ruolo importante nella riduzione del rischio di recidive ischemiche e di mortalità post-SCA. Le modifiche dello stile di vita sono un elemento cruciale della fase post-SCA (Tab. I) e includono programmi e raccomandazioni su cessazione del fumo, corretta alimentazione, controllo del peso corporeo, assunzione di alcol, attività fisica regolare, supporto psicosociale, attività sessuale e vaccinazioni (ad esempio influenza, Covid-19) (10,11,56).

L’aderenza a queste strategie resta tuttavia difficile e rappresenta una sfida importante da affrontare. In una revisione di studi epidemiologici si è osservato che molti pazienti non aderiscono alle terapie farmacologiche CV e che il 9% degli eventi CV è attribuibile a scarsa aderenza (61). Un supporto a lungo termine (intensivo nei primi 6 mesi e poi ogni 6 mesi per 3 anni) è risultato efficace nello studio GOSPEL, determinando un significativo miglioramento dei fattori di rischio e una riduzione della mortalità e di vari outcomes clinici (62). Pertanto, programmi assistenziali e di CR sono ideali per ottimizzare il percorso post-SCA.

Da un punto di vista pratico, l’aderenza alle prescrizioni ha un notevole impatto economico, derivante in parte dal suddetto impatto prognostico e in parte dai costi della terapia. Solitamente si parla di “aderenza per difetto” quando un’insufficiente aderenza determinerebbe un minore beneficio (per non dire nullo) nel paziente in terapia. Esiste tuttavia anche una “non aderenza per eccesso”, cioè un “uso inappropriato” della terapia, quando la terapia viene prescritta secondo indicazione, ma “al paziente sbagliato”: ciò implica un beneficio nullo o insufficiente sul piano dell’appropriatezza, cioè del rapporto rischio-beneficio. L’aderenza incide anche sui costi complessivi del sistema sanitario: l’uso eccessivo o l’inappropriatezza determinano infatti un eccesso di spesa rispetto a quanto previsto, dunque uno spreco di risorse. In caso di un difetto di aderenza, la spesa potrebbe anche risultare inferiore, ma ciò alla fine determina comunque uno spreco secondo il principio di costo-efficacia (63). Quest’ultimo, infatti, non tiene solo conto della sicurezza ed efficacia della terapia, ma anche se debba rientrare tra le azioni di tutela pubblica della salute. Pertanto, una mancata aderenza implica un ridotto raggiungimento degli outcomes attesi e dunque uno spreco in termini di risorse economiche. Ciò suggerisce l’importanza di una responsabilizzazione del medico nelle prescrizioni, così come di un’adeguata istruzione e responsabilizzazione del paziente. Tutto ciò appare estremamente rilevante se si pensa che le decisioni in termini di prescrivibilità e rimborsabilità in Italia sono basate in gran parte su analisi di costo-efficacia, che tengono conto non solo dei costi ma anche dei benefici attesi sulla base dei risultati di studi clinici randomizzati. In tal senso, ad esempio, i più recenti farmaci ipolipemizzanti potrebbero essere considerati molto costosi; tuttavia, rapportandoli al notevole beneficio che ne deriva in specifici pazienti ad alto rischio come quelli post-SCA, si percepisce meglio l’importanza di un investimento anche consistente in questo ambito. Infatti una recente analisi dello studio ODYSSEY OUTCOMES ha dimostrato che, in pazienti con SCA trattati con statine, la terapia con alirocumab è in grado di migliorare gli outcomes clinici a costi intermedi, e il maggiore beneficio in termini di costo-efficacia si osserva nei pazienti con LDL-C basale ≥100 mg/dL (64).

TABELLA I - Raccomandazioni per le modifiche dello stile di vita post-SCA
Fumo Utilizzare strategie farmacologiche e comportamentali per aiutare il paziente a smettere di fumare
Evitare il fumo passivo
Dieta Dieta ricca di frutta, verdura, cereali integrali
Consumo di frutta e verdura >200 g/die
Assunzione di 35-45 g di fibre al giorno, preferenzialmente da cereali integrali
Moderato consumo di noccioline (30 g, senza sale)
Assunzione di 1-2 pasti di pesce a settimana (di cui 1 di pesce grasso)
Limitata quantità di carne magra, latticini a basso contenuto di grassi e oli vegetali liquidi
Limitare i grassi saturi a <10% del totale, sostituiti con acidi grassi poli-insaturi
Evitare grassi trans insaturi, preferibilmente non da cibi trattati, e mantenerli <1% dei grassi totali
Limitare l’assunzione di sale a <5-6 g/die
Limitare l’assunzione di alcol a <100 g/settimana o 15 g/die
Evitare cibi ad alto contenuto calorico come le bevande zuccherate
Attività fisica Attività fisica moderata, regolare, per circa 30-60 minuti al giorno per la maggior parte dei giorni. Anche l’attività irregolare è benefica
Peso corporeo Ottenere e mantenere un peso corporeo adeguato (BMI 18,5-25 kg/m2) o perdere peso mediante una limitata assunzione di calorie e incrementata attività fisica
Altri Assumere i farmaci come prescritto
L’attività sessuale è a basso rischio per pazienti stabili e asintomatici durante uno sforzo lieve-moderato
Limitare l’inquinamento acustico e ambientale
Supporto psico-sociale (counseling, interventi farmacologici e comportamentali) in caso di stress, depressione e ansia
La vaccinazione anti-influenzale annuale è raccomandata nei pazienti cardiopatici

Conclusioni

I pazienti con SCA sono a rischio vascolare molto elevato ed eventi ischemici ricorrenti post-SCA restano ancora oggi frequenti. Strategie di prevenzione secondaria farmacologica (terapia ipolipemizzante, antiaggregante, anti-ischemica e dello scompenso cardiaco ecc.) e non (modifiche dello stile di vita) e l’aderenza nel tempo a queste strategie rappresentano il cardine per la gestione e l’ottimizzazione della prognosi nei pazienti post-SCA. Dunque, è necessario implementare gli sforzi per creare appropriate ed efficienti reti organizzative territoriali con adeguati programmi di riabilitazione cardiologica e percorsi assistenziali dedicati, mirati alla gestione post-dimissione dei pazienti con SCA, con l’obiettivo di migliorare la sopravvivenza e la qualità di vita di questi pazienti.

Disclosures

Conflict of interest: The authors declare no conflict of interest.

Financial support: This research received no specific grant from any funding agency in the public, commercial, or not-for-profit sectors. Editorial support was provided by Elena Sarugeri on behalf of Health Publishing & Services Srl and was funded by Sanofi.

Authors contribution: All authors contributed equally to this manuscript.

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