G Clin Nefrol Dial 2022; 34: 63-69 ISSN 2705-0076 | DOI: 10.33393/gcnd.2022.2423 ORIGINAL ARTICLE |
Inibitori del SGLT2: suggerimenti dal mondo degli anfibi
SGLT2 inhibitors: suggestions from the amphibian world
Sodium-glucose cotransporter 2 inhibitors are a class of antidiabetic drugs that inhibit glucose reabsorption in the proximal renal tubules. In many trials these drugs have shown unpredictable major cardio- and nephroprotective properties. Multiple hypotheses have been raised to elucidate the mechanisms underlying the last effects. Some authors suggest they may be due to the contemporary urinary loss of energy (as glucose) and water (by osmotic diuresis). This particular condition could induce metabolic changes resulting in more efficient energetics at cardiac and renal levels and in less oxidative stress. These changes might really be part of a series of evolutionarily conserved metabolic switches that allow organisms to survive in arid habitats with restricted nutrients and water availability, well studied in amphibians and collectively named “estivation”.
Keywords: Chronic kidney disease, Diabetes, Estivation, Ketonic bodies, SGLT2 inhibitors
Received: May 18, 2022
Accepted: July 4, 2022
Published online: July 25, 2022
Giornale di Clinica Nefrologica e Dialisi - ISSN 2705-0076 - www.aboutscience.eu/gcnd
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Introduzione
Il cotrasportatore 2 sodio-glucosio (SGLT2), espresso a livello del segmento S1 del tubulo contorto prossimale (TCP) renale, è responsabile del riassorbimento di oltre il 90% del glucosio presente nel filtrato glomerulare. L’ultima classe di farmaci antidiabetici messi in commercio, gli inibitori del SGLT2, causa pertanto una perdita netta di glucosio, da cui l’effetto antidiabetico, e una diuresi osmotica dovuta all’aumentata quantità di glucosio e (nei primi giorni di trattamento) di sodio nel lume tubulare.
Inaspettatamente questi farmaci hanno mostrato significative capacità cardio- e nefroprotettive in pazienti diabetici e non diabetici. In trials randomizzati controllati su pazienti affetti da diabete mellito tipo 2 essi hanno diminuito del 40% il rischio relativo di progressione di malattia renale e del 30-40% quello di ospedalizzazione per insufficienza cardiaca (1-4). Nell’EMPEROR-Reduced Trial (5) empaglifozin ha ridotto del 25% il rischio combinato di morte o ospedalizzazione per cause cardiovascolari in 3.730 pazienti cardiopatici con frazione di eiezione (FE) ≤40% seguiti per un FU medio di 16 mesi, indipendentemente dalla presenza o meno di diabete. Nel DAPA-CKD (6) dapaglifozin ha diminuito del 44% il rischio combinato di riduzione del filtrato glomerulare (FG) ≥50%, di malattia renale cronica terminale o di morte per cause renali in 4.304 pazienti nefropatici proteinurici (con FG 25-75 mL/min/1,73 mq e rapporto albuminuria/creatininuria 200-5.000 g/die) seguiti per un FU medio di 2,4 anni, indipendentemente o meno dalla presenza di diabete. Tutti questi effetti benefici erano apprezzabili già precocemente, entro pochi mesi dall’inizio del trattamento.
Varie ipotesi (7,8), di cui nessuna mutuamente esclusiva, sono state formulate per cercare di spiegare questi benefici su cuore e rene: l’effetto diuretico osmotico, il miglior controllo del peso, della pressione arteriosa e della glicemia in pazienti diabetici e così via. L’effetto sul rene è stato attribuito all’attivazione del feedback tubulo-glomerulare indotta dal maggior carico di soluti che giunge alla macula densa e che induce vasocostrizione dell’arteriola glomerulare afferente diminuendo l‘iperfiltrazione glomerulare. Questo meccanismo non spiega comunque la cardioprotezione che non può essere neanche dovuta a un effetto farmacologico diretto sul miocardio, dal momento che SGLT2 è presente solo sui TCP renali. Inoltre, nessun intervento terapeutico o sullo stile di vita che abbia prodotto un simile controllo su pressione arteriosa, emoglobina glicata o peso corporeo è mai riuscito finora a ottenere un grado di protezione cardiaca o renale pari e con altrettanta rapidità rispetto a quello raggiunto dagli inibitori del SGLT2 (9-11). Si è cercato quindi di esplorare meccanismi diversi e possibilmente “comuni” con cui questi farmaci potrebbero risultare vantaggiosi per la funzione sia cardiaca che renale.
Un aspetto peculiare degli inibitori del SGLT2 è che essi tendono a instaurare contemporaneamente un bilancio negativo di energia (per la perdita di glucosio come fonte energetica) e di acqua (per la diuresi osmotica). Questo è un fenomeno già noto nel regno animale, in particolare in quegli organismi che vanno incontro al processo di estivazione.
L’estivazione è il processo con cui durante i periodi di siccità estiva alcuni animali estivatori resistono alla carenza di acqua e di risorse energetiche nell’ambiente entrando in uno stato catabolico in cui l’organismo contemporaneamente: 1) sfrutta le fonti energetiche endogene ridistribuendole in modo da privilegiare gli organi vitali e la conservazione di acqua; 2) rallenta al minimo indispensabile l’attività metabolica nei vari organi, in particolare in quelli non vitali, diminuendo la produzione di specie ossidative.
Queste modificazioni, che si sono evolute nell’arco degli ultimi 350 milioni di anni, forniscono una risposta integrata fra la conservazione contemporanea di acqua ed energia e durante l’evoluzione hanno permesso il passaggio di organismi dall’ambiente acquatico a quello terrestre. Esse sono ben note in pesci polmonati, rane, salamandre e altri anfibi e sono state descritte anche in mammiferi, in particolare in roditori da laboratorio, ma finora sono state poco studiate nell’uomo (12). Alcuni autori (13) hanno ipotizzato che, provocando una perdita di acqua e di energia, gli inibitori del SGLT2 inducano durante le ore notturne, quando l’assunzione di energia e acqua è scarsa o nulla, modificazioni metaboliche simili a quelle degli animali estivatori che si tradurrebbero in un vantaggio per la sopravvivenza degli organi e dell’individuo.
La ridistribuzione delle risorse energetiche endogene…
Il mantenimento di un sufficiente apporto calorico per il funzionamento degli organi vitali e la conservazione dell’acqua sono due processi non completamente distinti ma accomunati dal fatto che anche la conservazione di acqua è un processo che consuma energia e che quindi in condizioni di siccità deve essere effettuato nel modo più “economico” possibile. Infatti, per riassorbire acqua i reni degli animali estivatori utilizzano come osmolita prevalentemente l’urea (14), che è il meccanismo più efficiente di concentrazione urinaria. Essa infatti permette loro di conservare acqua anche in ambienti necessariamente iperosmotici (p. es., pesci polmonati e cartilaginei che vivono in acque ad alta salinità) e può essere generata da substrati endogeni (il loro fegato ridistribuisce l’energia disponibile verso la produzione di urea (15)), rendendo il processo di conservazione di acqua più autonomo e indipendente da fattori ambientali. Anche nei mammiferi però sono presenti meccanismi analoghi. Topi alimentati con una dieta a elevato contenuto di sodio (modello di stress disidratativo) aumentano sia il riassorbimento di acqua urea-dipendente (mediato da un’aumentata attività del trasportatore di urea UT-A1 a livello della midollare interna del rene) sia la sintesi epatica di urea (16). Il trattamento con inibitori del SGLT2 sembra indurre modificazioni simili. L’incremento del volume urinario indotto dall’effetto osmotico di questi farmaci scompare dopo i primi giorni di trattamento (17) per un aumentato riassorbimento di acqua mediato da una iper-espressione di UT-A1 (18) e probabilmente anche per un’aumentata secrezione di ormone antidiuretico (ADH) (19) che a sua volta potenzierebbe ulteriormente l’espressione di UT-A1 nel dotto collettore (20). È stato quindi proposto (13) che durante il trattamento a lungo termine con gli inibitori del SGLT2 questi meccanismi simil-estivatori rappresentino una risposta fisiologica adattativa per limitare la diuresi osmotica e conservare l’acqua corporea. Da sottolineare che in questo contesto l’aumentata concentrazione sierica di urea (secondaria a un’aumentata produzione epatica e a un aumentato riassorbimento tubulare renale) perderebbe il tradizionale significato negativo, rappresentando invece una risposta fisiologica necessaria per impedire la disidratazione (16).
In condizioni di scarse risorse ambientali l’organismo ha non solo la necessità di conservare acqua ma anche quella di continuare a produrre energia e glucosio in quantità sufficienti per soddisfare le richieste dei tessuti glicolitici obbligati. Energia sotto forma di ATP può essere prodotta a partire sia da carboidrati che da lipidi e proteine. Tuttavia la conservazione di acqua urea-dipendente richiede anche consumo di azoto (per la sintesi dell’urea), e l’azoto può essere ricavato solo dal catabolismo proteico. Nello stesso modello animale (topi sottoposti a stress disidratativo) la ridotta produzione di insulina stimola la proteolisi muscolare attivando il “ciclo di Cahill”, che trasporta energia dal muscolo al fegato sotto forma di alanina e la riporta eventualmente al muscolo sotto forma di glucosio (shuttle glucosio-alanina) (16). Nel tessuto muscolare il gruppo aminico degli aminoacidi viene trasferito al piruvato (derivante dal catabolismo dei carboidrati) per formare alanina che è rilasciata in circolo e captata dal fegato. Qui lo scheletro carbonioso dell’alanina è ritrasformato in piruvato e utilizzato per la produzione locale di energia (una volta trasformato in acetil-CoA per entrare nel ciclo di Krebs) oppure avviato alla gluconeogenesi epatica per produrre glucosio che potrà essere riversato in circolo e sfruttato come fonte energetica in primis dai tessuti glicolitici obbligati ma anche dal tessuto muscolare scheletrico dove sarà metabolizzato (attraverso la glicolisi) ad acido piruvico e potrà perpetuare il ciclo. Il gruppo aminico dell’alanina entra invece nel ciclo dell’urea, che sarà trasportata ai reni per essere impiegata nel processo di concentrazione urinaria. Ecco come il catabolismo proteico può sopperire contemporaneamente alle necessità di conservare acqua e produrre energia e glucosio.
Il ciclo di Cahill è stato descritto anche nell’uomo in condizioni di digiuno protratto (21,22) e alcuni autori (13) hanno ipotizzato che esso possa attivarsi anche in pazienti trattati con inibitori del SGLT2 durante le ore notturne, quando la persistente perdita urinaria di glucosio (e quindi di energia) non è compensata da un adeguato introito calorico (23). In questi casi, come negli animali estivatori, esso servirebbe quindi non solo a mantenere una sufficiente produzione di glucosio ma anche a prevenire la perdita di acqua.
Dal momento che l’ureagenesi e la gluconeogenesi epatica sono processi energy-intensive, cioè richiedono consumo di ATP, lo shuttle glucosio-alanina fra muscolo e fegato aumenta in modo significativo la spesa energetica. Questa è però attenuata dall’attivazione del metabolismo lipidico. In corso di carenza energetica, infatti, l’aumentato rapporto glucagone/insulina induce nel fegato l’ossidazione degli acidi grassi (β-ossidazione) che in queste circostanze è dirottata verso la chetogenesi e in particolare verso la produzione di acido β-idrossibutirrico (BHOB). La chetogenesi è favorita dal fatto che non tutto l’acetil-CoA prodotto nel fegato dalla β-ossidazione può essere impiegato nel ciclo di Krebs: primo perché (principio generale) le cellule possono produrre ATP solo in quantità pari a quella di cui necessitano, secondo perché la gluconeogenesi epatica consuma ossalacetato che è il necessario substrato dell’acetil-CoA per entrare nel ciclo di Krebs. Quindi il surplus di acetil-CoA prodotto dal metabolismo degli acidi grassi può essere solo convogliato nella produzione di corpi chetonici che saranno riversati in circolo e captati da quegli organi (come encefalo, muscolo scheletrico, cuore e reni) in grado di ossidarli per produrre energia. La produzione di corpi chetonici da acetil-CoA risparmia energia perché è un processo energy-free, cioè avviene senza consumo di ATP, e permette di conservare il glucosio per i tessuti glicolitici obbligati. Inoltre, la proteolisi muscolare aumenta anche la liberazione in circolo degli aminoacidi ramificati valina, leucina e isoleucina. Questi aminoacidi costituiscono una fonte speciale di energia perché, diversamente dalla maggior parte degli altri aminoacidi, non sono catabolizzati nel fegato (che manca delle transaminasi specifiche necessarie) bensì nei tessuti viscerali come cuore e rene (in cui invece tali enzimi sono espressi) dove possono essere trasformati in acidi grassi liberi e corpi chetonici per soddisfare le esigenze energetiche locali e contribuire così a dirottare il metabolismo energetico dalla glicolisi alla β-ossidazione (24).
Queste ipotesi ben si adattano anche alle modificazioni metaboliche osservate in corso di terapia con inibitori del SGLT2: aumento del rapporto glucagone/insulina, stimolazione del catabolismo degli aminoacidi, attivazione del ciclo dell’urea, preferenziale uso di grassi come fonte di energia e promozione della chetogenesi epatica (25-27). E proprio quest’ultimo punto, lo shift da glucosio/lipidi a corpi chetonici come substrati preferenziali da ossidare per la produzione energetica, sembrerebbe avere un ruolo rilevante nella cardio- e nefroprotezione esercitata dagli inibitori del SGLT2.
A prima vista questo concetto può apparire almeno “curioso” perché, essendo solitamente associati alla chetoacidosi, nel pensiero comune i corpi chetonici hanno generalmente una valenza negativa, ma in realtà i loro effetti sono molto più complessi. Il ruolo del BHOB come substrato energetico è presente nella scala evolutiva da oltre 2-3 bilioni di anni, ha avuto un ruolo significativo nella sopravvivenza dell’uomo durante periodi di carestie, rende un contributo sostanziale al metabolismo del neonato, è utilizzato dalla maggior parte dei batteri ed è già presente negli Archaea. È possibile che sia stato selezionato per questo scopo dai bassi livelli ambientali di ossigeno presenti nel corso dell’Archeano, Proterozoico e Paleozoico (28).
… e le sue conseguenze sul cuore
Nel soggetto sano il metabolismo energetico del miocardio è affidato per il 95% alla fosforilazione ossidativa mitocondriale. I “carburanti” utilizzati sono soprattutto acidi grassi (60-70%), glucosio (30%) e lattato mentre altri substrati (fra cui i chetoni) lo sono in misura molto minore. Tuttavia i miocardiociti hanno la capacità di modificare sia il tipo di metabolismo sia il tipo di substrato a seconda delle circostanze e del combustibile più disponibile in quel momento. Mentre dopo i pasti sono soprattutto fosforilazione ossidativa e glucosio alla base della produzione di energia, durante il digiuno il substrato principale è rappresentato dagli acidi grassi e in condizioni di ipossia il metabolismo energetico si sposta verso la glicolisi e la produzione di lattato (29). Gli inibitori del SGLT2 aumentano la produzione e la concentrazione ematica di corpi chetonici e il cuore, che ne è grande consumatore soprattutto in condizioni di insufficienza d’organo (30), può aumentarne l’utilizzo in modo direttamente proporzionale alla loro disponibilità nel sangue circolante, riducendo contemporaneamente l’ossidazione di acidi grassi e glucosio. Ciò risulta vantaggioso perché l’aumentata ossidazione degli acidi grassi e l’iperglicemia aumentano la produzione di ROS risultando tossiche per il miocardio (31) ma soprattutto perché i corpi chetonici costituiscono una fonte energetica particolarmente efficiente per le cellule, tanto da essere stati definiti un “superfuel” (32).
Il glucosio è un carburante più efficiente degli acidi grassi perché ha una maggiore resa di ATP per ogni atomo di ossigeno consumato (rapporto P/O). L’ossidazione completa del glucosio genera 31 molecole di ATP consumando 12 atomi di ossigeno (P/O 2,58) mentre quella del palmitato produce 105 molecole di ATP ma consuma 46 atomi di ossigeno (P/O 2,33). Un aumentato affidamento energetico agli acidi grassi a spese del glucosio si traduce perciò in una minore efficienza cardiaca e in un’aumentata propensione all’insufficienza cardiaca (33). Il BHOB costituisce una fonte di energia ancora più efficiente del glucosio perché pur avendo un rapporto P/O simile (2,50) produce più energia. In una bomba calorimetrica l’ossidazione completa del BHOB libererebbe 243,6 Kcal/mol di 2 unità di carbonio contro le 185,7 del piruvato (prodotto terminale della glicolisi) (34). La maggiore efficienza del BHOB è probabilmente dovuta al più elevato rapporto fra atomi di idrogeno e atomi di carbonio (H/C) rispetto al piruvato (2 per BHOB vs 1,3 per piruvato). In altre parole il BHOB è una molecola “più ridotta” del piruvato e quindi può essere ossidata in misura maggiore (32). La combustione del palmitato genererebbe anche più energia (298 Kcal/mol di 2 unità di carbonio) ma la sua efficienza “in vivo” è minore di quella del BHOB per vari motivi: 1) durante la β-ossidazione solo la metà degli elettroni entra nella catena respiratoria a livello della NADH deidrogenasi (complesso I) mentre gli altri entrano a livello della succinato-coenzima Q reduttasi (complesso II) che porta alla sintesi solo di 5 delle 6 molecole di ATP teoricamente possibili (equivalente a una perdita di efficienza di circa il 5%) (32); 2) l’aumento degli acidi grassi induce un’aumentata trascrizione di proteine mitocondriali disaccoppianti che dirottano l’energia verso la produzione di calore invece che di ATP; 3) l’aumentata β-ossidazione avviene in parte nei perossisomi in cui (diversamente dalla β-ossidazione mitocondriale) non produce energia ma solo calore (32). Questi concetti possono spiegare alcune osservazioni sperimentali. In un modello di cuore di ratto perfuso con soluzione tamponata di glucosio, l’aggiunta di una dose fisiologica di corpi chetonici nel liquido di perfusione indusse un aumento del lavoro e contemporaneamente una diminuzione (N.B: diminuzione) del consumo di ossigeno, aumentando complessivamente l’efficienza cardiaca (rapporto lavoro/ossigeno consumato) del 25% (35). In un modello animale di insufficienza cardiaca postischemica (maiali non diabetici sottoposti a occlusione dell’arteria interventricolare anteriore) il trattamento con un inibitore del SGLT2 dirottò il metabolismo energetico miocardico dal consumo di glucosio verso quello di corpi chetonici, acidi grassi e aminoacidi ramificati e contemporaneamente ridusse le alterazioni anatomo-funzionali ventricolari sinistre e l’attivazione neuro-ormonale (24).
In sintesi, quindi, gli inibitori del SGLT2 operano uno switch metabolico andando a “tassare” le inutilizzate (e spesso sovrabbondanti) risorse lipidiche, “risparmiando” invece quelle di carboidrati per gli organi glicolitici obbligati. E proprio per questa saggia ridistribuzione delle risorse alcuni Autori (36) li hanno paragonati a Robin Hood, che rubava ai ricchi per aiutare i poveri!
I corpi chetonici sembrano poi avere anche altri effetti, in particolare antinfiammatori e antiossidanti, che possono contribuire alla protezione cellulare. Per esempio, il BHOB blocca l’attivazione dell’inflammosoma NOD-like receptor protein 3 (NLRP3) e attiva l’hydroxycarboxilic acid receptor 2 (HCAR2) che stimola un sottogruppo di macrofagi con attività antinfiammatoria (37,38). Anche l’effetto antiossidante sembra esplicarsi a diversi livelli. In un modello di cellule embrionali renali il BHOB inibisce l’attività delle istone-deacetilasi già a concentrazioni (1-2 mMol/L) fisiologicamente riscontrabili dopo un digiuno prolungato o un esercizio strenuo (39). La persistente acetilazione di questi istoni attiva alcuni geni (FOXO3a, MT2) che proteggono dallo stress ossidativo stimolando le superossido-dismutasi (Mn-SOD) e catalasi mitocondriali. Il BHOB attiva anche il nuclear factor erythroid 2-related factor-2 (NRF2), un fattore di trascrizione che regola l’espressione di diverse centinaia di geni coinvolti nella protezione dal danno ossidativo e dall’infiammazione (40). La maggiore ossidazione del coenzima Q da parte del BHOB ne potenzia l’azione antiossidante diminuendone la forma ridotta che, reagendo spontaneamente con l’ossigeno, rappresenta la principale fonte mitocondriale di radicali liberi (41). Infine, il metabolismo dei corpi chetonici induce nel cytosol una diminuzione del rapporto NADP/NADPH che è in equilibrio con il glutatione e quindi ne aumenta la frazione ridotta ad attività antiossidante (37). A conferma di questi effetti, l’impianto di una pompa sottocutanea a rilascio di BHOB ha soppresso la perossidasi proteica e lipidica in topi trattati con paraquat e.v. (che induce accumulo di specie ossidative) (39).
… e sul rene
Gli effetti benefici degli inibitori del SGLT2 sui reni sono stati inizialmente attribuiti a una riduzione dell’iperfiltrazione glomerulare secondaria all’attivazione del feedback tubulo-glomerulare (42) ma una parte importante può probabilmente averla anche una migliore efficienza energetica dell’organo. Come il miocardio, il rene può utilizzare come carburanti per la fosforilazione ossidativa substrati differenti (lattato, acidi grassi liberi, glucosio, corpi chetonici, ecc.) a seconda della loro disponibilità (43). Durante la terapia con inibitori del SGLT2 il rene (come cuore e muscolo scheletrico) sembra ridurre il consumo di glucosio e aumentare quello di acidi grassi e/o aminoacidi (13) e anche l’estrazione renale di corpi chetonici, bassa alle loro usuali concentrazioni fisiologiche, può aumentare significativamente quando i livelli sierici di BHOB si innalzano durante la terapia con questi farmaci, risultandone prevedibilmente una produzione di energia più efficiente.
Una maggiore efficienza energetica renale in condizioni di carenti risorse ambientali è fondamentale perché il rene è un organo metabolicamente molto attivo, con un consumo di ossigeno (QO2) per grammo di tessuto secondo solo al cuore (2,7 vs 4,3 mMol/Kg/min) (44), in gran parte (80% circa) dovuto all’attività della pompa ATPasi Na/K delle cellule tubulari. Recentemente è stato ipotizzato che l’ipossia renale, intesa come mismatch fra richiesta e disponibilità di ossigeno, giochi un ruolo significativo nella progressione della malattia renale cronica (45). Nel diabete il maggior riassorbimento tubulare prossimale di glucosio (e sodio), ulteriormente aumentato dall’iperfiltrazione glomerulare (46), aumenta il consumo di ossigeno dell’organo. Inibendolo, gli inibitori del SGLT2 possono non solo ridurre l’iperfiltrazione glomerulare ma anche abbassare il consumo di ossigeno e il conseguente stress ipossico nel rene diabetico.
Durante il decorso cronico della nefropatia diabetica la progressiva perdita di nefroni (e quindi di FG) diminuisce la glicosuria e quindi anche l’effetto degli inibitori del SGLT2 sulla glicemia va progressivamente riducendosi. Tuttavia anche in tal caso la loro funzione nefroprotettiva può essere mantenuta a livello dei nefroni residui che si trovano a dover riassorbire, per la concomitante iperfiltrazione glomerulare, un aumentato carico di glucosio e sodio nel TCP (47). Peraltro l’iperfiltrazione glomerulare dei nefroni residui in corso di nefropatia cronica è un fenomeno più generale e non limitato alla sola nefropatia diabetica (48). In un modello di rene di ratto non diabetico è stato calcolato che l’uninefrectomia e la perdita dei 5/6 della popolazione nefronica aumentino rispettivamente del 43% e del 77% il carico di glucosio nei nefroni residui (47), che si trovano così ad affrontare il riassorbimento di un surplus di soluti con un maggiore consumo di ossigeno. Come logica conseguenza di queste osservazioni, un significativo grado di nefroprotezione da parte degli inibitori del SGLT2 potrebbe essere atteso fino a valori di FG sostanzialmente bassi.
Il rallentamento dell’attività metabolica
Mentre da un lato l’estivazione causa un reindirizzamento delle risorse energetiche verso la conservazione di acqua e il mantenimento delle funzioni vitali, dall’altro essa presuppone una contrazione metabolica per risparmiare energia. La maggior parte degli animali estivatori è pecilotermica e, se necessario, può spingere questo processo fino a giungere in uno stato simil-stuporoso nel quale i processi metabolici sono ridotti al minimo. I mammiferi omeotermi (e quindi l’uomo) non possono abbassare il loro metabolismo in modo così massivo perché devono bruciare costantemente energia per mantenere costante la loro temperatura interna. Tuttavia in particolari condizioni essi sembrano in grado di poter parzialmente utilizzare alcuni di questi processi, che potrebbero essere ulteriormente potenziati dagli inibitori del SGLT2. In un modello animale di diabete iperinsulinemico (ratti ob/ob) questi farmaci riducono la concentrazione di intermedi del ciclo di Krebs e di specie reattive dell’ossigeno nella corticale renale, reperti compatibili con una diminuita attività metabolica (49). In quest’ottica è interessante l’osservazione che in roditori sani esposti a una dieta iperosmotica i meccanismi di conservazione dell’acqua (energy-intensive) inducono un rallentamento della frequenza cardiaca tramite un’inibizione dell’attività del sistema nervoso simpatico (16,50). Questo fenomeno non solo partecipa al risparmio energetico diminuendo il consumo di ossigeno cardiaco ma potrebbe avere anche altre conseguenze vantaggiose per l’organismo. È noto infatti che nell’insufficienza cardiaca e renale un’iperattività del sistema nervoso simpatico non solo è costantemente presente ma può rivestire un ruolo significativo nella progressione del danno funzionale e anatomico di questi organi (51). Gli inibitori del SGLT2 si sono dimostrati capaci di inibire l’attività simpatica in vari modelli animali diabetici e non diabetici (24,52,53). Questo effetto, che contribuisce a distinguerli da altre classi di diuretici, potrebbe pertanto concorrere alla protezione d’organo di questi farmaci e a rendere il loro meccanismo d’azione sempre più reminiscente dei fenomeni di adattamento all’ambiente degli animali estivatori.
Conclusioni
Gli inibitori del SGLT2 causano contemporaneamente un bilancio negativo di glucosio, energia e acqua, che sembra indurre modificazioni metaboliche simili a quelle che avvengono durante il fenomeno dell’estivazione. Negli animali estivatori queste modificazioni comportano da un lato una diminuita attività metabolica con una conseguente riduzione dello stress ossidativo e dall’altro una ridistribuzione delle risorse endogene per mantenere una sufficiente produzione di energia e glucosio e la necessaria conservazione di acqua. Questi effetti richiedono l’attivazione del catabolismo proteico nel muscolo scheletrico che però, di per sé, condurrebbe alla distruzione della massa muscolare e a un ulteriore consumo energetico. Queste conseguenze negative sembrano limitate da uno shift metabolico che dirotta dai carboidrati verso i grassi la fonte principale di energia e in particolare si affida alla produzione di corpi chetonici. Questi ultimi, dotati di particolari proprietà che li rendono un carburante particolarmente efficiente, possono avere un ruolo nel ridurre il carico di lavoro e lo stress ossidativo a livello cardiaco e renale, partecipando così alla protezione di questi due organi.
Disclosures
Conflict of interest: The Authors declare no conflict of interest.
Financial support: This research received no specific grant from any funding agency in the public, commercial, or not-for-profit sectors.
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