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G Clin Nefrol Dial 2022; 34: 22-25

ISSN 2705-0076 | DOI: 10.33393/gcnd.2022.2381

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La complessità della relazione medico-paziente in nefrologia: perché è ancora più importante occuparsene oggi?

Medico Nefrologo Psicologa Analista Junghiana, Socio analista IAAP e CIPA Istituto di Milano, Libera professionista presso Padova e Camposampiero - Italy

The complexity of the doctor-patient relationship in nephrology: why is it even more important to take care of it today?

Medicine is more than just a science: it is a human contact between men. We must not forget that “Psyche depends on the body and the body depends on the psyche”. The 21st Century man’s Psyche is more stressed than in the past, as we live in a complexity increasingly understood with the passage of time. The only way to take care of the sick person in the body, and therefore suffering in the psyche, can only be that which rests on the relationship, since the relationship, in my opinion, can be considered the bridge between the psyche and the soma. If the medical technique today does not pass through the relationship could it be effective in the cure? Trust in the doctor today is no longer a certainty, as medicine has lost its character of sacredness, but must be acquired and conquered through a dedicated and continuous relationship. Unlike other pathologies, nephrology does not end in a diagnosis or in a therapy that is provided at home, but the patient’s only point of reference is the nephrology nursing staff. Effective communication will lead to a reduction in the time taken for communication, improving the patient’s ability to understand and trust, reducing the operator’s effort and improving the therapeutic result. Today’s medicine, and today’s “healers” can no longer fail to deal with the management of the operator-patient relationship in order to meet the demands that today’s society and healthcare organization make in the medical field.

Indirizzo per la corrispondenza:
Marilena Cara
Via Cellini 4
35027 Noventa Padovana (PD) - Italy
marilena.cara@libero.it

Giornale di Clinica Nefrologica e Dialisi - ISSN 2705-0076 - www.aboutscience.eu/gcnd

© 2022 The Authors. This article is published by AboutScience and licensed under Creative Commons Attribution-NonCommercial 4.0 International (CC BY-NC 4.0).

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La medicina è più di una semplice scienza: è un contatto umano tra uomini. È una scienza applicata all’essere umano, costituito, non dimentichiamolo, da corpo e psiche.

Non dimentichiamo che “La psiche dipende dal corpo e il corpo dipende dalla psiche” (1).

La psiche dell’uomo del XXI secolo è più sollecitata rispetto ad altre epoche. La complessità della società moderna relativamente a bisogni e aspettative non è paragonabile al passato.

Nonostante le evoluzioni della tecnologia e delle conoscenze scientifiche, l’uomo rimane costituito di soma e psiche e rimane fondamentale occuparsi della persona malata nel corpo e quindi sofferente nella psiche. Rimane quindi imprescindibile una cura che si strutturi sulla relazione.

La relazione, può essere considerata il ponte tra la psiche e il soma, attraverso cui connettiamo la mente e il corpo. Se la tecnica medica oggi non passasse attraverso la relazione potrebbe essere efficace nella cura?

Oggi è più facile parlare di Sanità piuttosto che di medicina, riservando a quest’ultima solo la prassi clinica rispetto al tema più ampio della terapia olistica.

Nei paesi anglosassoni, operano la differenza tra “to care” e “to take care”: il primo è il “curare” e il secondo il “prendersi cura”!

La relazione operatore-paziente è sempre più considerata un nodo cruciale della gestione del paziente in ambito sanitario e ancor più nel contesto delle malattie croniche in ambito nefrologico.

La tecnologia e il Web hanno profondamente trasformato la società degli ultimi 20 anni. L’accesso indiscriminato a qualsiasi tipo di informazione ha profondamente trasformato la relazione e la comunicazione in qualsiasi campo della vita e in modo particolare in ambito sanitario.

Perché oggi l’aspetto relazionale nei reparti ospedalieri o nell’attività clinica ambulatoriale pesa molto più di un tempo?

Una volta la professione medica era protetta dall’aspetto della sacralità, del divino. Le origini della medicina ci raccontano di una medicina legata inizialmente agli aspetti divini, poi magici religiosi e solo successivamente nel corso dei tempi legata alla scienza.

Il medico era considerato un semi-Dio perché aveva ereditato un potere-sapere divino: quello di restituire la salute. Il Dio della Medicina era Esculapio, il guaritore. Il simbolo dell’ordine dei medici deriva dal mito di Esculapio, utilizzando infatti come simbolo il bastone che Esculapio teneva tra le mani, il bastone con i due serpenti appunto simbolo della capacità di guarigione, derivante dal Caduceo di Mercurio Psicopompo, cioè accompagnatore di anime. I due serpenti simboleggiavano, nel mito di Mercurio e di Esculapio, il veleno e il suo antidoto, proprio come secoli dopo professa la Scuola Salernitana.

In realtà anticamente, nell’Asclepiadeo (l’ospedale) di Epidauro, o di Koos, che erano i più grandi e famosi dell’antichità, i pazienti si recavano dai sacerdoti/terapeuti che prescrivevano loro bagni, purificazioni, diete e così via, finché al paziente stesso non fosse comparso in sogno il Dio stesso a dare la terapia, attuata poi dai sacerdoti/terapeuti stessi.

È ovvio intuire che in questo ambito la distanza tra medico e paziente era tale che il rapporto non poteva che essere un rapporto di sottomissione, di sudditanza, di estrema riconoscenza nei confronti di colui che era il raro e prezioso guaritore. Erano pochi i dottori di un tempo ed era poca l’informazione.

Rimane il fatto che anche nella nostra modernità colui che cura rimane come un maestro d’orchestra che concerta la melodia della vita e della morte.

La fiducia nel medico oggi non è più qualcosa di dato a priori, di scontato, ma deve essere acquisita, conquistata attraverso un rapporto dedicato e continuativo.

La possibilità di accedere a fonti di informazioni sanitarie senza avere le competenze culturali specifiche per poter interpretare in modo corretto quanto raccolto ha creato la necessità di una nuova consapevolezza della relazione e della formazione specifica in tal senso.

A differenza di altre patologie croniche, per esempio quelle neurologiche o metaboliche o immunologiche, la nefrologia è un ambito ancora più oscuro e più difficile nella comprensione della terminologia e dei processi fisiopatologici, disorientando ancora di più il paziente nefrologico e complicando la comunicazione tra medico e paziente (è più complesso far capire cosa sia l’uremia piuttosto che la glicemia, o la creatinina piuttosto del colesterolo).

Inoltre, a complicare la situazione, l’informazione sanitaria che viene fornita dai media spesso è confusiva.

Frequentemente il paziente, o, meglio, la persona che necessita di cura, si rapporta con il medico come se la relazione fosse una relazione alla pari e tra pari.

Questo ha un senso sotto il profilo della relazione umana ma non sotto quello della relazione professionale, dove il medico deve rimanere a un gradino di conoscenza molto superiore rispetto a quello del paziente, mantenendo il ruolo e l’identità professionale ben separati dal paziente.

Il punti fondamentali sono la distanza e il confine.

Sviluppare la giusta distanza relazionale significa essere vicini al paziente ma ben individuati nel proprio ruolo professionale.

Se la distanza, il gap, tra l’umano di colui che si prende cura e colui che necessita di cura è troppo ampio e il confine non è ben definito, allora si corre il rischio di inficiare la cura stessa (2).

Teniamo conto infatti che il guaritore ferito (3), colui che ha subito una profonda ferita e ha trovato il modo di elaborarla, di superarla, è il guaritore per eccellenza che può guarire la ferita dell’altro attraverso una capacità empatica che spontaneamente ha acquisito. Presumo anche che egli possa attivare l’istinto di sopravvivenza della persona che ha in cura in modo più efficace.

La psicanalisi insegna e illustra come il vero terapeuta sia colui che attivando l’istinto di sopravvivenza del paziente permette all’Anima di tale soggetto di reagire positivamente alle cure.

Questo è vero e riconosciuto dalle società analitiche di diversa estrazione teorica ed è altrettanto vero nella medicina.

Non credo esista un lavoro più relazionale di quello medico-infermieristico (in modo particolare di quello nefrologico), che gioca la sua partita quotidiana in un campo abitato dalla sofferenza fisica, psichica ed emotiva.

Il collettivo in ambito ospedaliero è denso e costituito da svariate figure: medici, infermieri, operatori sanitari, pazienti, segretarie e così via. Ognuna di queste è connotata da un ruolo ben definito e distinto, che deve però intrecciarsi nella fitta rete del gruppo sanitario.

Ed è proprio la “buona” relazione che rende possibile l’imprescindibile intreccio tra i vari professionisti della sanità.

Etimologicamente il termine relazione riporta a stabilire un legame (relatus), un rapporto, un collegamento.

Stabilire una relazione in ambito sanitario può essere valido solo se il confronto avviene tra persone e se colui che si prende cura, si confronta con il malato e non con la malattia.

La persona al centro della cura”: un concetto da cui la medicina non può più allontanarsi.

La persona è costituita da psiche e soma.

Se i meravigliosi e raffinati sviluppi della scienza e della tecnica medica hanno condotto a concentrare l’attenzione prevalentemente verso la cura del corpo, vuol dire che ci siamo persi la PSICHE, intimamente e fisiologicamente interconnessa con il corpo?

Prima della nascita delle scienze mediche, medicina e psichiatria, così come psiche e soma erano un tutt’uno, contemporaneamente presi in cura da un unico medico.

Nel 1900 la psichiatria diventa scienza autonoma connessa alla neurologia. Furono gli psichiatri (Freud, Jung) ad approfondire lo studio del funzionamento umano attraverso la sviluppo della psicanalisi.

Lentamente la crescita della psicanalisi e il suo allontanamento dalla psichiatria hanno condotto parallelamente a un allontanamento di colui che si prendeva cura del corpo e di colui che si prendeva cura della psiche accreditando sempre più l’idea che psiche e soma fossero due entità distinte.

Oggi possiamo contare più di 50 specializzazioni mediche. Se, da una parte, questo ha portato a un aumento dell’accuratezza diagnostica e terapeutica, dall’altra, ha frammentato l’immagine della persona affetta da patologia.

Il malato è stato sottoposto a una sorta di frammentazione sotto l’impulso della tecnica?

Oggi le neuroscienze confermano ciò che biologi e analisti (Pavlov, Darwin, Freud, Jung, ecc.) da più di un secolo e mezzo sostengono è cioè come il funzionamento umano sia condizionato profondamente dalle aree cerebrali che sono localizzate nel “CERVELLO EMOTIVO” (4) (il sistema limbico): la parte del cervello dove nascono le reazioni emotive, la parte che si eccita quando ci emozioniamo per qualunque ragione, rabbia, gioia e così via. Le emozioni si propagano in tutto il corpo attraverso il sistema nervoso autonomo (simpatico e parasimpatico di cui il nervo vago o pneumogastrico è quello maggiormente rappresentato).

Qualsiasi comportamento umano è condizionato primariamente dall’emozione o dal vissuto emotivo che in quel momento il soggetto sta vivendo. Ogni relazione umana è condizionata dal comportamento di quel soggetto e quindi dal vissuto emotivo che in tal momento attraversa il soggetto.

Non esiste un altro ambito professionale più permeato di emozioni e da esse condizionato come quello sanitario, in cui la “partita” della cura la si gioca in un campo caratterizzato da sofferenza fisica e psichica, malattia, limite e impotenza.

L’emozione vive nel corpo e ci fa muovere nel mondo, ci muoviamo infatti sotto l’influsso di sensazioni di piacere o dispiacere (ci avviciniamo o allontaniamo da una persona in base a sensazioni di piacere e dispiacere).

Per esempio la paura che il medico può provare nella scelta delicata per la vita di un suo paziente può condizionarlo nel ragionamento scientifico o nell’approccio al paziente o allo stesso modo il comportamento di un paziente spaventato o in stato d’ansia a causa di una malattia fisica o di una diagnosi di insufficienza renale terminale sarà condizionato dall’emozione che sta provando in quel momento. In entrambi questi casi la capacità di comprendere, di discernere, di comunicare e di relazionarsi sarà condizionata dallo stato emotivo che il soggetto sta attraversando.

Il campo emotivo che si attiverà condizionerà a sua volta la relazione e quindi la comunicazione e la cura.

La capacità di essere (non di fare) in relazione sarà direttamente proporzionale alla consapevolezza che il soggetto ha del proprio stato emotivo.

Maggiore è la consapevolezza della paura che mi fa comunicare una diagnosi infausta a un paziente e maggiore sarà la mia capacità di gestire questa emozione affinché condizioni meno negativamente possibile il mio comportamento.

Se ci possiamo avvicinare mentalmente alla dimensione emotiva e inconscia nostra e della persona che necessita di cura, la nostra capacità comunicativa e relazionale si trasformerà, perché più consapevoli di ciò che attraversa noi e il nostro interlocutore e quindi capaci di gestire le situazioni relazionali in maniera più efficace.

Per esempio, se abbiamo paura inconsciamente di una certa malattia o ci identifichiamo inconsciamente con un paziente o viviamo un vissuto di impotenza o siamo preoccupati per aver commesso un errore diagnostico e così via, la nostra relazione con l’altro ne sarà inevitabilmente influenzata e di conseguenza la nostra capacità comunicativa sarà alterata.

Potremmo sostenere che le radici della cura siano proprio nella relazione e nello specifico nella relazione operatore-paziente? Potremmo dire che qualsiasi forma di cura tra persone passa attraverso una relazione e quindi una forma di collegamento?

Coloro che lavorano in ambito nefrologico sono consapevoli di come questa area medica non si esaurisca in una diagnosi o in una terapia che viene fornita a domicilio (come accade in molti altri ambiti). Il paziente vive in sala dialisi o in ambulatorio peritoneale o in ambulatorio trapianti e ha come unico punto di riferimento sempre presente il personale medico infermieristico del reparto di nefrologia.

Non può esistere comunicazione se non esiste relazione, non può esistere relazione efficace senza due individui sufficientemente consci di se stessi e del proprio vissuto emotivo.

Ciò che è ancora più importante è che una comunicazione efficace, attraverso la consapevolezza del campo relazionale, comporterà una riduzione e non un aumento del tempo impiegato per la comunicazione, migliorando la capacità di comprensione e di fiducia del paziente, riducendo lo sforzo dell’operatore e migliorando l’outcome terapeutico.

Una comunicazione empatica è più efficace e già terapeutica, perché un paziente sentirà di essere preso in carico e si ridurrà il tempo necessario alla cura del paziente.

La mia esperienza di medico prima e analista poi mi porta a credere nella necessità di ricongiungere le due scienze: quella che si occupa del corpo e quella che si occupa della psiche.

È fondamentale soprattutto nel campo della medicina moderna tornare a un’unione della cura psiche-soma.

Una fusione che ci riporterebbe alle origini, quando mente e corpo erano oggetto comune di cura, ma con l’aggiunta dell’indiscutibile vantaggio di una tecnica meravigliosamente raffinata ed efficiente. Forse è questa fusione, questo ritorno alle origini, che potrebbe aiutare la sopravvivenza della medicina oggi, cioè quella che si occupa della cura della persona.

La medicina di oggi e i “guaritori” di oggi non possono più non occuparsi della gestione della relazione operatore-paziente al fine di far fronte alle numerose richieste che la società e l’organizzazione sanitaria di oggi avanzano nell’ambito medico.

Per questo credo che la “Medicina” di oggi, immersa in una complessità diversa rispetto al passato, non possa non occuparsi anche di fornire nelle scuole di formazione, sia mediche che infermieristiche, una base dei meccanismi psicologici di base che entrano nel campo della relazione umana, quella tra operatore e paziente, ad altissima specificità.

La formazione dovrebbe garantire gli strumenti per creare quel collegamento tra individui che giocano su un campo caratterizzato da sofferenza fisica e psichica, dall’incontro con la morte e dal limite della malattia e caratterizzato spesso da un vissuto di impotenza.

Non credo che gli operatori sanitari e soprattutto i giovani in formazione possano prepararsi alla clinica medica senza una base concreta e funzionale incentrata sugli aspetti psicologici che sottintendono la cura e la relazione terapeutica.

I sanitari iniziano a muoversi sull’onda dell’esigenza di una formazione che sia non solo tecnica ma, direi, individuativo-professionale. Sempre più frequenti sono le richieste di formazioni specialistiche e di supporto alla crescita personale e di equipe nello specifico ambito professionale.

Nella mia esperienza di formatore e terapeuta di equipe sanitarie ho incontrato professionisti tra medici, infermieri e operatori socioassistenziali motivati e interessati alla conoscenza di se stessi e del proprio funzionamento in ambito professionale. Attraverso il lavoro di gruppi di formazione omogenei o eterogenei (a seconda delle necessità) condotti da un supervisore esperto in ambito sanitario, l’operatore ha modo di incontrare se stesso e il proprio funzionamento in relazione a determinate situazioni o pazienti o dinamiche di equipe e in modo consequenziale e spontaneo di assorbire modalità di comunicazione empatica.

Disclosures

Conflict of interest: The Authors declare no conflict of interest.

Financial support: This research received no specific grant from any funding agency in the public, commercial, or not-for-profit sectors.

Bibliografia

  • 1. Jung CG. Opere volume 8, La dinamica dell’incontro, La struttura della psiche. Bollati Boringhieri. 2004;157-176.
  • 2. Jung CG. Opere volume 16, Medicina e psicoterapia. Bollati Boringhieri. 2004;95-103.
  • 3. Jung CG. Opere volume 7, La struttura dell’inconscio. Bollati Boringhieri. 2006;263-302.
  • 4. Van Der Kolk B. Il corpo accusa il colpo, “Perdere il corpo, perdere se stessi”. Raffaello Cortina Editore. 101-119.