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G Clin Nefrol Dial 2022; 34: 26-30

ISSN 2705-0076 | DOI: 10.33393/gcnd.2022.2368

EDITORIAL

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ANTROPOCENE: la “salute” del villaggio globale e il “Cigno Nero”

SOC Nefrologia e Dialisi Ospedale San Jacopo, Pistoia, e ASL Toscana Centro, Pistoia - Italy

ANTHROPOCENE: the “health” of the global village and the black swan

Over the past three centuries, the effects of humans on the global environment have increased. It seems appropriate to assign the term “Anthropocene” to the current geological epoch, which is in many ways dominated by humans. The Anthropocene can be said to have begun in the latter part of the 18th century, when analyses of air trapped in polar ice showed the beginning of the rise in global concentrations of carbon dioxide and methane. This date also coincides with the design of the steam engine by James Watt in 1784. In particular, the 21st century witnessed an unforeseen but predictable resurgence of infectious diseases, not least the COVID-19 pandemic, which had a devastating impact on lives and livelihoods worldwide. The 2003 severe acute respiratory syndrome coronavirus outbreak, the 2009 swine flu pandemic, the 2012 Middle East respiratory syndrome coronavirus outbreak, and the 2013-2016 Ebola virus outbreak in West Africa all caused significant morbidity and mortality as they spread through the global village across borders to infect people in multiple countries. In the last 70 years, the speed at which human habits have changed through technological, demographic and climatic changes is unprecedented: airline flights have doubled since 2000, more people live in urban than rural areas since 2007, climate change poses a growing threat to society, and humans have stopped following the high road shown by nature with proper nutrition and regular exercise. In this review, we consider the extent to which these recent global changes have increased the risk of infectious disease outbreaks, even though improved sanitation and access to health care have led to significant progress worldwide.

Indirizzo per la corrispondenza:
Alessandro Capitanini
SOC Nefrologia Pistoia
Via Ciliegiole 97
51100 Pistoia - Italy
drcapitanini@gmail.com

Giornale di Clinica Nefrologica e Dialisi - ISSN 2705-0076 - www.aboutscience.eu/gcnd

© 2022 The Authors. This article is published by AboutScience and licensed under Creative Commons Attribution-NonCommercial 4.0 International (CC BY-NC 4.0).

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Introduzione

Negli ultimi tre secoli gli effetti dell’azione umana sull’ambiente globale sono aumentati al punto di poter definire l’era geologica attuale con il termine “Antropocene”.

L’origine di questa epoca può essere collocata temporalmente nell’ultima parte del XVIII secolo grazie al riscontro dell’incremento progressivo di concentrazioni globali di anidride carbonica e metano da parte di studi che analizzano l’aria intrappolata nei ghiacci polari.

Questo momento storico coincide anche con la progettazione del motore a vapore da parte di James Watt nel 1784 (1).

Fin dagli esordi della storia più recente del genere umano sul pianeta terra, il fil rouge è stato l’evidente difetto di consapevolezza su come interagire con la natura (evidenziata tuttavia a livello di alcune società culturali minori, a rischio di estinzione se non già estinte).

I successi del progresso, così come lo intendiamo, hanno evidenziato il loro lato oscuro nella minaccia della salute del nostro pianeta. Ma la salute del pianeta è legata a doppio filo con la salute dell’uomo.

L’umanità non rappresenta che una briciola del totale delle creature che popolano la Terra eppure è arrivata a produrre una quantità di materiale più abbondante di tutta la biomassa (cioè l’insieme di organismi viventi) del Pianeta. Secondo uno studio pubblicato su Nature (2) stiamo varcando, o abbiamo appena valicato, il momento in cui tutte le opere umane sono arrivate a pesare più di piante, microrganismi, persone e animali messi insieme. Il 2020 ha segnato approssimativamente, con un margine di errore di 6 anni, questo punto di non ritorno.

In epoca premoderna, colonizzazione, schiavitù e guerre, hanno portato alla diffusione globale delle malattie infettive, con conseguenze devastanti. Malattie umane come la tubercolosi, la poliomielite, il vaiolo e la difterite erano ampiamente diffuse e, prima dell’avvento dei vaccini, queste malattie causavano una morbilità e una mortalità notevoli. Allo stesso tempo, malattie animali come la peste bovina si diffondevano lungo le rotte commerciali e con gli eserciti in viaggio, con impatti devastanti sul bestiame e sulle popolazioni umane dipendenti.

La seconda metà del secolo scorso ha fatto parlare di transizione epidemiologica, ossia il passaggio dalle malattie infettive e trasmissibili alle cosiddette malattie non comunicabili, definite così perché causate dallo stile di vita e da fattori genetici e ambientali, anziché da microrganismi, come i batteri, che possono essere trasmessi da un individuo all’altro.

Il 1978 è l’anno considerato della transizione: una vittoria simbolicamente segnata dall’eradicazione del vaiolo, solennemente annunciata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a conclusione di una campagna vaccinale planetaria. Nei paesi sviluppati a quel tempo le malattie infettive rappresentavano una minima porzione del totale delle cause di mortalità. Nei paesi in via di sviluppo ci si aspettava, in un lasso di tempo ragionevole, la stessa evoluzione dei paesi più ricchi, avvenuta grazie al miglioramento delle condizioni di vita (in primis alimentazione e igiene) e all’utilizzo di vaccini e antibiotici. Ma l’idea di essere in procinto di liberarsi dal fardello di quelle malattie, che da sempre avevano pesantemente afflitto il genere umano, era destinata ben presto a sfumare. Infatti, a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso, l’umanità si è trovata a fare i conti con un’epidemia tanto inattesa quanto inizialmente letale come quella di HIV/AIDS (3), che ha provocato, soprattutto nel Sud del mondo, decine di milioni di morti. Ma non solo HIV/AIDS, a partire dallo stesso decennio, infatti, si registra l’emersione e la riemersione di una serie di malattie infettive: un fenomeno correlato a molteplici, spesso concomitanti, ragioni, quasi sempre riferibili al contesto della globalizzazione (4). Qui esaminiamo come i recenti cambiamenti climatici, demografici e tecnologici antropogenici, molto influenzati da fattori economici, abbiano alterato il panorama del rischio di malattie infettive negli ultimi due decenni.

Indebolimento delle strutture sanitarie di controllo e crollo degli investimenti in sanità pubblica

Il servizio di igiene e sanità ha un ruolo determinante nella salute dei cittadini ma anche, e soprattutto, nel garantire la salubrità degli ambienti di vita. Un’inadeguata bonifica del territorio ha delle conseguenze devastanti sulla salute della popolazione. È il caso della Dengue (5), una malattia virale veicolata da una zanzara (Aedes Aegypti), presente nelle zone tropicali e subtropicali. Prima degli anni ’70 solo nove paesi, soprattutto dell’America Latina, riportavano epidemie di Dengue. Nel 1983 epidemie furono registrate in 13 paesi in America Latina e in Asia e nel 1998 i paesi coinvolti furono 56, con 1,2 milioni di casi. Oggi la malattia è endemica in più di 100 paesi dell’Africa, delle Americhe e dell’Asia; secondo l’OMS oltre 2,5 miliardi di persone sono a rischio di contrarre la Dengue, con una stima di 50-100 milioni di infezioni nel mondo ogni anno. A causa di ciò circa 500.000 persone si ricoverano per forme gravi di tale patologia, gran parte delle quali è rappresentata da bambini. Il 2,5% di questi muore (WHO, 2019). Il motivo della massiva diffusione del virus va ricercato nella carenza delle attività di bonifica e disinfestazione delle zone in cui si riproducono le zanzare, vale a dire di tutti i punti in cui l’acqua tende a raccogliersi e a ristagnare, come pneumatici, barili scoperti, secchi e cisterne.

Le deforestazioni

La deforestazione è la riduzione delle aree verdi naturali della terra per sfruttare il terreno a scopo agricolo o industriale, con il conseguente aumento di CO2 e i relativi effetto serra e cambiamenti climatici. La deforestazione distrugge anche il naturale habitat di animali e di insetti, che sono costretti, per la ricerca di cibo, a entrare in contatto con gli umani. È il caso della malattia di Chagas (6), diffusa soprattutto in America Latina e causata dal Tripanosoma Cruzi che viene trasmesso all’uomo dalla puntura di diverse specie di cimici (triatomine). È il caso anche della malattia da virus Ebola (7), dove l’introduzione del virus in comunità umane avviene attraverso il contatto con sangue, secrezioni, organi o altri fluidi corporei di animali infetti. In Africa è stata documentata l’infezione a seguito del contatto con scimmie, antilopi e pipistrelli trovati malati o morti nella foresta pluviale. In entrambi i casi la deforestazione rappresenta il principale fattore che porta in contatto le persone con il vettore della malattia.

Il cambiamento climatico

Diverse malattie infettive sono sensibili ai cambiamenti di temperatura e di condizioni ambientali per il loro sviluppo e la loro diffusione. La malaria (8) ne è un classico esempio. La zanzara Anopheles, che trasmette la malattia, richiede temperature al di sopra dei 16 °C per completare il suo ciclo di vita, per questo il riscaldamento climatico ha fatto comparire la malaria nelle aree più montuose dell’Africa orientale dove prima non esisteva. L’OMS stima che, se le temperature globali cresceranno di 2-3 °C, come atteso, la popolazione mondiale a rischio di malaria crescerà dal 3% al 5%, con la conseguenza che nuovi milioni di persone si ammaleranno di malaria ogni anno.

L’urbanizzazione

Nel 2007 la popolazione mondiale che vive nelle aree urbane ha superato il 50% per la prima volta nella storia: 3,3 miliardi di persone che sono destinati, secondo le previsioni, a raddoppiare (6,3 miliardi) nel 2050. Un’urbanizzazione che ha portato alla creazione di città di enormi dimensioni (megalopoli): da Tokyo (38 milioni di abitanti) a Shanghai (34 milioni), da Dheli (27 milioni) a New York (23 milioni), a Mexico City, Sao Paulo e Lagos (tutte con 21 milioni di abitanti). Molto spesso queste immense concentrazioni di popolazione si sono realizzate in modo caotico e non programmato, creando così le condizioni ideali, a causa del sovraffollamento abitativo, della povertà della popolazione e della mancanza di infrastrutture igieniche e sanitarie, per la diffusione di malattie infettive (come la tubercolosi) e la riemersione di malattie di altri tempi come la peste (epidemie in India nel 1994 e nel 2002) (9,10).

Le guerre e le calamità

Le guerre (11) rendono difficile per le persone accedere ai servizi sanitari e per il personale sanitario svolgere attività sul territorio e provvedere regolarmente all’approvvigionamento e alla conservazione dei vaccini e del materiale necessario alle vaccinazioni. Le reti fognarie sono colpite dai bombardamenti e le fonti di acqua potabile non sono più accessibili. Molti perdono il lavoro, la fonte di guadagno, la possibilità di nutrirsi adeguatamente. Se aggiungiamo che buona parte della popolazione è costretta a spostarsi e viene ammassata in campi profughi, abbiamo descritto lo scenario perfetto per il diffondersi delle epidemie. A quasi dieci anni dall’inizio della guerra civile in Siria (2011) il bilancio è terrificante: 450.000 morti, più di 1 milione di feriti e 12 milioni di persone sfollate (la metà della popolazione totale), di cui circa 5 milioni in cerca di un rifugio all’estero. Nel 2013 si è verificata un’epidemia di poliomielite, che era scomparsa dal paese 18 anni prima, grazie ai programmi vaccinali. E da allora il virus della polio continua a mietere vittime. La poliomielite è di casa anche in paesi ad alta instabilità politica e militare, come Somalia, Afghanistan, Nigeria e Pakistan. In questi ultimi due paesi sono stati presi di mira i vaccinatori, uccisi nell’adempimento del loro lavoro.

Le calamità naturali, come anche le guerre, sono dunque dei perfetti incubatori di epidemie. Nel gennaio 2010 Haiti, il paese più povero degli Stati dell’America centrale, parte occidentale dell’isola di Hispaniola, fu colpito da un violento terremoto che provocò enormi distruzioni e circa 260.000 morti. Pochi mesi dopo si verificò un’epidemia di colera, la cui rapida diffusione fu facilitata anche dal completo dissesto delle strutture sanitarie: in poco tempo si verificarono 160.000 casi e oltre 3.000 decessi. Quando si andò a ricercare l’origine dell’epidemia si scoprì, con enorme sorpresa, che il vibrione del colera era stato importato a Haiti dal contingente di “Caschi Blu” inviati dalle Nazioni Unite per mantenere l’ordine pubblico: i militari purtroppo provenivano dal Nepal (paradosso della globalizzazione!), paese dove il colera a quel tempo era endemico.

Il colera a Haiti per anni ha continuato a mietere vittime: nel 2010 si registrarono 180.000 casi e circa 4.000 morti. Nel 2018 il vibrione del colera circolava ancora in forma endemica, con numeri nettamente inferiori rispetto al passato: 3.000 casi e 37 decessi (12).

La povertà

Di colera si muore anche a causa della (cattiva) politica e della povertà. È il caso di un’epidemia scoppiata in Sudafrica (in una zona rurale a nord di Durban) nel 2000 che provocò circa 120.000 casi e costò 265 morti. Alla base dell’epidemia ci furono la privatizzazione dell’acqua e l’impossibilità di pagarla da parte della popolazione più povera, che fu per questo costretta a rifornirsi con le acque di un fiume contaminato. Attualmente si stima che nel mondo 780 milioni di persone non abbiano accesso a fonti sicure di acqua e che 2,5 miliardi di persone non abbiano accesso ai servizi igienici basici (CDC). La povertà è la più importante causa di malattia e di morte, infatti, come si legge nel Rapporto della Commissione OMS sui Determinanti sociali di salute, “I più poveri hanno i più alti livelli di malattia e di mortalità prematura: più bassa è la posizione socioeconomica peggiore è la salute” (13).

Il ribaltamento della realtà

Attività motoria e nutrizione (14), due pilastri dell’evoluzione dell’essere umano, non sono usati con consapevolezza, come veri e propri farmaci naturali, ma sono diventati, sorprendentemente, un potenziale nemico dell’uomo. L’uomo moderno vive in un ambiente che ha esplicitamente progettato e disegnato per eliminare il lavoro fisico quanto più possibile. All’inizio del XX secolo il contributo della spesa energetica umana nelle attività lavorative era di circa il 30%; oggi quella cifra è inferiore all’1%. Da circa settanta anni è iniziato un cambiamento senza precedenti del modo di vivere della specie umana, caratterizzato da una progressione apparentemente inarrestabile verso la sedentarietà, con una progressiva perdita di alcune funzionalità corporee, sino ad arrivare alla cosiddetta “disuse syndrome” (15). L’attività motoria ha un potentissimo potere positivo e, come afferma Blair nel suo studio “Aerobics Center Longitudinal Study”, le morti evitabili percentualmente più sostanziose sono quelle dovute a un low fitness cardiovascolare (16), che deriva dalla pratica eccessiva della sedentarietà. Il COVID-19 ha impietosamente evidenziato tutta l’importanza del basso fitness cardiovascolare nel determinare la fragilità delle persone (17).

Anche il cibo, come l’attività motoria, ha subito modifiche, rivelatesi negative, nel tempo e, soprattutto negli ultimi 60-70 anni, più che di evoluzione dobbiamo parlare di una vera e propria trasformazione. L’avvento dell’industrializzazione nel campo alimentare ha portato modifiche molto profonde, mai verificatesi prima, con la creazione, per motivi di business, di alimenti trasformati, fatti cioè con ingredienti molto lontani dal prodotto naturale. La chimica e l’industria alimentare hanno via via introdotto sul mercato cibi preparati con la caratteristica di saper stimolare l’appetito e il bisogno di mangiare. Sono stati creati cibi in grado di ingannare il nostro innato sistema di ricompensa, inducendo nuove forme di dipendenza. Zucchero e sale sono stati aggiunti a moltissimi preparati alimentari per questo motivo, insieme a coloranti, conservanti e altre sostanze che fino a qualche decennio fa erano completamente sconosciute. I cibi naturali a basso contenuto calorico e ad alto contenuto di nutrienti, fibre alimentari e acqua, come le verdure, gli ortaggi e i cereali integrali, sono stati sostituiti sulla tavola da alimenti ad altissimo contenuto calorico, raffinati e privati sia di nutrienti che di fibre alimentari (di cui si è implementata la produzione pagando costi inferiori ma a scapito della qualità). La malnutrizione, in tutte le sue forme, è il più grande singolo fattore di rischio per il carico globale di malattie (18,19). Accanto ai problemi pervasivi di denutrizione, la prevalenza di sovrappeso/obesità sta aumentando drammaticamente, con il 39% di adulti in sovrappeso od obesi nel 2016. L’obesità sta aumentando nella maggior parte dei paesi, in ambienti sia urbani che rurali e attraverso i livelli socio-economici, aumentando il rischio di NCD (Not Communicable Disease: diabete di tipo 2, ipertensione e dislipidemia) oltre alle malattie trasmissibili (19). Anche in questi casi il peso maggiore ricade sui paesi a basso e a medio reddito (20,21).

Il “Cigno Nero”

La teoria del “Cigno Nero” è stata elaborata dal filosofo e matematico libanese-americano Nassim Nicholas Taleb e rappresenta una metafora che descrive un evento non previsto, che ha effetti rilevanti e che, a posteriori, viene giudicato prevedibile.

Nel 2020, quando tutto sembrava filare liscio con la sigla dell’accordo commerciale epocale Usa-Cina e le borse segnavano dati di record finanziari, si è abbattuta sul mondo la sindemia da COVID-19. Il 30 dicembre 2019 le parole, o meglio la Chat medica, dell’oculista cinese Li Wenliang comunicava un alert sulla necessaria protezione da adottare negli studi medici nel sospetto di un’infezione simile alla SARS. La risposta del regime cinese fu immediata, con il silenziamento e con l’infamia per il medico accusato di minaccia all’ordine pubblico. Ma le bugie hanno le gambe corte e, nel periodo dei festeggiamenti del Capodanno cinese (una festività che, per numero di trasferimenti, è paragonabile al Thanksgiving americano), il Global Times lanciava l’allarme: “Il sindaco di Wuhan, epicentro della diffusione della polmonite da coronavirus, ha dichiarato che oltre cinque milioni di persone hanno lasciato la città a causa della festa di primavera (il Capodanno cinese)”. La pandemia ormai era iniziata.

Noi abbiamo due case, il nostro corpo e il pianeta che ci ospita, e oggi, nel “villaggio globale”, dove tutto si muove con la massima velocità e dove la massiccia urbanizzazione è la regola, i salti di specie dei virus, anche se sempre avvenuti, sono in grado di causare effetti amplificati e spesso incontrollabili.

Nella storia dell’ultimo secolo la terribile pandemia definita “Spagnola”, determinata dal virus influenzale di tipo A (sottotipi H1N1) nel triennio 1918-1920, ha causato milioni di morti. In quella circostanza il salto di specie era avvenuto tra uccelli e uomo.

Nei due decenni appena trascorsi abbiamo attraversato tre epidemie causate da Betacoronavirus.

Il serbatoio principale dei coronavirus è costituito da varie specie di pipistrelli, che albergano anche altri virus, tra cui la rabbia e l’Ebola.

I coronavirus umani, capaci di provocare malattie gravi, sono stati il SARS-CoV, che ha avuto origine in Cina nel 2002 e che ha ucciso più di 800 persone, il MERS-CoV, il virus della sindrome respiratoria mediorientale da coronavirus, che ha provocato la morte di 850 persone, e infine il SARS-CoV-2, che ha causato finora oltre 5,5 milioni di decessi.

I dati suggeriscono che il nuovo coronavirus si sia evoluto nella provincia cinese dello Hubei, a Whuan, in Cina, un’area che comprende più di cinquanta milioni di persone. L’area geografica è caratterizzata da una massiccia urbanizzazione, da un’alta densità di popolazione e da estese attività di allevamento animale, tutti fattori umani che favoriscono i contatti ravvicinati tra l’uomo e potenziali riserve animali dei virus.

In questa pandemia, di cui cominciamo a intravedere la fine, la scienza ha fatto il suo dovere (riuscendo a produrre in tempi record nuovi ed efficaci vaccini), ma la politica no: i capi di governo dei paesi più ricchi avevano parlato dell’importanza di un equo accesso alla vaccinazione COVID, si erano impegnati a donare le dosi, ma non hanno rispettato la promessa, incapaci di sospendere le regole dei brevetti.

L’asimmetria della vaccinazione (il 75% delle popolazioni ad alto reddito ha ricevuto almeno una dose di vaccino COVID, rispetto al 46% delle popolazioni a medio-basso reddito e al solo 7% delle popolazioni più povere) rappresenta tutt’oggi l’ostacolo principale all’interruzione della pandemia (22). Mentre siamo alla ricerca di una risposta definitiva sull’origine della variante omicron, con certezza sappiamo che, finché tutte le popolazioni della terra non saranno protette dalla minaccia del virus, continueremo a osservare la nascita di nuove varianti che si diffondono per tutto il mondo. Un concetto ribadito dal British Medical Journal (BMJ) con un articolo di Maggie Rae, Presidente della Facoltà di Sanità Pubblica di Londra (23).

Conclusioni

L’Italia e il mondo stanno vivendo un momento surreale, caratterizzato da perdita dell’orientamento e sensazione di impotenza e fragilità. A un’improvvisa perdita di controllo dell’igiene e della salute pubblica nel mondo è seguito uno shock planetario che ci ha posti di fronte a una sfida cruciale per la determinazione del domani della nostra casa comune, il Pianeta Terra. Le grandi lezioni della scienza e, soprattutto, della Natura devono essere comprese, interiorizzate e applicate, se vogliamo ancora avere un futuro. Ma è finito il tempo di aspettare che gli altri facciano qualcosa: medici e società scientifiche (24) ma anche ogni singolo individuo possono e devono farlo, con scelte consapevoli riguardanti lo stile di vita e la nutrizione e in virtù del profondo rispetto che dobbiamo alla Natura.

Disclosures

Conflict of interest: The Authors declare no conflict of interest.

Financial support: This research received no specific grant from any funding agency in the public, commercial, or not-for-profit sectors.

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