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G Clin Nefrol Dial 2021; 33: 57-66

ISSN 2705-0076 | DOI: 10.33393/gcnd.2021.2244

ORIGINAL ARTICLE

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Assistenza transculturale e comunicazione transculturale

1Azienda Ospedaliero-Universitaria di Sassari, Sassari - Italy

2SC Formazione, Ricerca e Cambiamento Organizzativo, ATS Sardegna, Sassari - Italy

Transcultural assistance and transcultural communication

For some years now, the health care world has also been interested and influenced by issues related to immigration, integration, no integration, historical changes in our socio-anthropological field and cultural and linguistic differences; different worldviews and expectations, beliefs and non-evidence-based practices; prejudices and defense mechanisms for ethical and professional inability to care with patients with different cultures; scientific culture alongside a traditional and popular culture; little or no anthropological knowledge of many health professionals; improvised approaches to foreign patients, misunderstandings, tensions. The use of the cultural mediator is a very small part in the solution of the problem. Cross-cultural assistance represents the solution and it is a model, a discipline, a communication that allows an appropriate health care based on the cultural differences of the patients.

Keywords: Cross-cultural assistance, Cross-cultural communication, Humanization of care

Indirizzo per la corrispondenza:
Valentina Micheluzzi
Azienda Ospedaliero-Universitaria di Sassari
Via Enrico de Nicola, 1
07100 Sassari - Italy
valentina.micheluzzi@libero.it

Giornale di Clinica Nefrologica e Dialisi - ISSN 2705-0076 - www.aboutscience.eu/gcnd

© 2021 The Authors. This article is published by AboutScience and licensed under Creative Commons Attribution-NonCommercial 4.0 International (CC BY-NC 4.0).

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Introduzione

Stiamo vivendo un momento di profondo mutamento storico del nostro tessuto socio-antropologico. L’immigrazione costituisce un fenomeno sociale che va sempre più acquisendo una configurazione rilevante, permanente e strutturale, caratterizzando, come in altre nazioni, anche la realtà italiana. La convivenza di una pluralità di etnie in uno stesso territorio solleva innumerevoli problemi che investono svariati piani, dalla sociologia alla psicologia, dall’antropologia culturale all’etnologia, dalla demografia all’economia, dalla morale alla religione e dal diritto alla politica e crea anche nuovi punti di domanda al mondo sanitario.

Da un punto di vista umanistico e olistico, l’essere umano è considerato un sistema unico, un essere che vive e sperimenta l’esistenza attraverso un’interconnessione vitale tra mondo interno ed esterno di tipo circolare, una rete di informazione in feedback tra le componenti biologica, psicologica, spirituale, sociale, culturale e ambientale. La persona, per natura, è intrinsecamente portatrice di diversità, ineludibile, caratterizzata da una complessità individuale. La continua trasformazione degli individui nello spazio e nel tempo non permetterà mai di identificare individui con le medesime caratteristiche e, conseguentemente, con una stessa cultura dominante.

Secondo la visione transculturale, ogni persona possiede capacità, risorse ed energie che conducono a una possibile guarigione, e tali capacità sono innate e sviluppate all’interno di un contesto culturale. Un sanitario con una visione transculturale aiuta la persona a identificare, indirizzare e potenziare tali risorse (1). Ogni cultura produce diverse e nuove definizioni di salute, sofferenza, malattia, guarigione e morte e l’assistenza transculturale ha lo scopo di inglobarle nel processo di assistenza, sviluppandone, dunque, l’elemento interculturale a favore della personalizzazione dell’assistenza.

Il primo elemento culturale che ha valore di barriera se non è affrontato è la diversità linguistica, via fondamentale di ogni comunicazione. Riuscire a comprendere i bisogni di salute del paziente di cultura diversa abbattendo la barriera linguistica è un obiettivo fondamentale, per aumentare la qualità dell’assistenza erogata e percepita e per limitare anche eventuali problematiche legate alla responsabilità professionale.

Assistenza transculturale

Oggi, assistere gli esseri umani con una prospettiva assistenziale transculturale è un elemento di primaria importanza per la salute, la guarigione e il benessere dei singoli individui, delle famiglie, dei gruppi e delle istituzioni.

Ogni cultura ha in sé specifici valori, credenze e modelli di assistenza e guarigione che è necessario individuare, capire e utilizzare nell’assistenza alle persone appartenenti a culture affini o diverse.

Ogni assistenza sanitaria si basa su fattori culturali legati allo sviluppo storico di una popolazione. Si possono distinguere due tipi di sistemi sanitari che si basano su due culture diverse: 1) un sistema popolare di assistenza sanitaria, tradizionale, che comprende l’insieme delle pratiche erogate a domicilio o nella comunità da personale non qualificato; 2) un sistema sanitario professionale, basato su un’assistenza e servizi erogati da personale formato, professionale.

Questi due sistemi sono ancora presenti nelle società e si basano su differenti concetti, nozioni ed esperienze. Ogni possibile utente porta con sé una cultura sanitaria diversa, formata da idee, convinzioni, opinioni e credenze. È necessario comprendere bene il mondo culturale di un paziente, il quale possiede una sua visione del mondo, una prospettiva etica e morale, un linguaggio e una religione che influiscono sul processo di assistenza, sull’adesione alle terapie, sulla percezione della malattia e sul concetto di dolore, benessere e qualità di vita.

La preparazione e la competenza nell’ambito dell’assistenza transculturale sono imprescindibili per poter erogare pratiche di assistenza sanitaria personalizzate e appropriate per ogni persona. Rispettare le credenze, i valori e gli usi caratteristici dei diversi ambiti culturali, con la possibilità di assimilarli nei servizi sanitari, deve essere considerato un diritto dell’uomo.

Un sanitario con una preparazione transculturale conosce l’etica di una cultura, i suoi tabù, i comportamenti e le scelte. Dunque, osservare, individuare, condividere e riflettere rappresentano le modalità principali per capire e per offrire risposte adeguate agli assistiti appartenenti a culture simili o diverse, con i relativi bisogni e aspettative di assistenza. È importante conoscere e capire il linguaggio verbale, non verbale e paraverbale, con i relativi significati e simboli, al fine di ottenere risultati culturalmente efficaci.

L’assistenza transculturale utilizza varie teorie di assistenza culturale per ampliare le conoscenze, per diffonderle, per farne uso e per apprezzarne i risultati nell’esercizio professionale. Le esperienze di assistenza culturale comparata e i relativi significati, valori e modelli rappresentano elementi su cui costruire conoscenze di assistenza transculturale per indirizzare le decisioni dei sanitari.

Un sanitario transculturale, prima di conoscere la cultura dell’altro, è obbligato a conoscere il proprio mondo di valori a esserne consapevole: solo con questo passaggio interiore di chiarimento può riconoscere le differenze con l’altro, dunque definire un orizzonte culturale in grado di assistere al meglio ciò che percepiamo diverso da noi o, meglio, diverso dalla nostra cultura.

L’assistenza transculturale si basa su tre principi: 1) tra le culture del mondo esistono diversità e universalità nell’ambito dell’assistenza; 2) nel mondo i fattori della struttura sociale, come la religione, l’economia, l’educazione, la tecnologia, la politica, la storia etnica, le condizioni ambientali e la lingua, influenzano fortemente i significati, le espressioni e i modelli dell’assistenza; 3) le tre maggiori azioni e decisioni assistenziali per arrivare a un’assistenza culturalmente congruente sono conservazione e/o mantenimento, adattamento e/o negoziazione, rielaborazione e/o riconfigurazione dell’assistenza culturale.

Cultura e comunicazione

La crescente multietnicità pone problemi relazionali nuovi, provoca timori e speranze, chiusure e aperture nei confronti dell’altro e sollecita la ricerca di modalità di gestione della convivenza inter-etnica, anche se vi è una maggiore consapevolezza individuale e collettiva del vivere in un tale contesto.

Quando ognuno di noi incontra l’altro, si entra, alle volte, in una sorta di situazione ermeneutica in cui a decidere della nostra apertura o meno e della nostra capacità o meno di comprendere la persona che abbiamo di fronte non è altro che il cumulo dei pregiudizi e delle pre-supposizioni che, in forza della storicità inalienabile dell’esistere, dà contenuto concreto alla nostra identità.

Nella comunicazione avvengono non solo contatti e scambi, ma anche processi di implicazione reciproca e transculturali. Pertanto, si fa riferimento alla società multiculturale non solo per precisare la compresenza di culture diverse all’interno della società stessa, ma anche per definire un loro particolare modo di relazionarsi.

Tra comunicazione e cultura esiste, quindi, un profondo e intrinseco legame, in quanto i processi comunicativi orientano e influenzano in modo essenziale la cultura in cui sono inseriti, così come la cultura dà forma e sostanza ai processi comunicativi che la manifestano. In quest’ottica, diventa naturale considerare la cultura come un sistema di mediazione, perché ogni persona si trova a vivere in un contesto ambientale trasformato dall’attività di coloro che lo hanno preceduto.

Pensare alla cultura significa anche pensare alla conoscenza del mondo: i membri di una cultura non solo conoscono alcuni fatti, ma devono anche condividere certi modelli di pensiero. Non dobbiamo pensare alla cultura solo come un fenomeno materiale, ma come una somma di cose, di persone, di comportamenti e di emozioni: è l’organizzazione e la forma delle cose che le persone hanno nella mente, il loro modo di percepirle e i loro modelli interpretativi.

Al centro della cultura, si collocano i valori, intesi come qualcosa di universalmente accettato, che svolgono la funzione di motivare le persone proponendo loro obiettivi da raggiungere e modelli da seguire e indicando, inoltre, la direzione della loro condotta, sostenendone l’intensità.

All’interno di questo quadro teorico, la comunicazione non solo rappresenta il mezzo privilegiato per manifestare i vari aspetti, ma ne rappresenta anche un fattore costitutivo.

In sintesi, la cultura come comunicazione e la comunicazione come cultura indicano e definiscono gli standard, le modalità, gli stili e i percorsi comunicativi, per manifestare e interpretare gli scambi tra gli attori attribuendo ad essi un significato condivisibile all’interno del processo comunicativo.

La comunicazione risulta un elemento fondamentale di ogni relazione umana: in ogni nostro comportamento esiste un messaggio che diviene comunicazione per chi lo ascolta o lo osserva, anche quando non si ha l’intenzionalità o la volontà di farlo.

Le parole, i gesti, ma anche il silenzio, influenzano le persone, che, a loro volta, rispondono a questi stimoli. La parola comunicare si riempie di una molteplicità di significati, la cui analisi permette di comprendere tendenze e aspirazioni di una persona, come se la comunicazione fosse una sorta di specchio su cui si fissano le informazioni.

Comunicare significa trasmettere qualcosa agli altri, significa partecipazione, condivisione. Attraverso la comunicazione, la persona si esprime, si fa conoscere dagli altri e fa conoscere il suo modo di essere, la propria personalità, le sue emozioni. Inoltre, comunicare permette all’individuo di rivolgersi all’ambiente che lo circonda e di entrare in contatto con esso e di coltivare rapporti con i suoi simili, con altre forme di vita, con oggetti inanimati e, soprattutto, con il proprio Io. L’azione del comunicare è, quindi, una caratteristica essenziale dell’esistere umano.

In effetti, la comunicazione è, per certi versi, la condizione di gran lunga più importante nei rapporti sociali, sia perché questi si basano su di essa, sia perché, in ultima analisi, diventa l’anello di congiunzione tra due o più persone. L’uomo vive inserito in una realtà sociale definita e variegata e partecipa a una serie di attività che, volente o nolente, lo mettono in relazione e in comunicazione con gli altri.

Dopo queste premesse, è possibile ora presentare una prima definizione che vede la comunicazione come un processo di trasmissione delle informazioni basate su un’interazione tra due o più persone.

Nel processo comunicativo esistono due tipologie di comunicazione: una verbale e una non verbale, ognuna delle quali è caratterizzata da diversi elementi (2).

La comunicazione verbale si avvale dell’uso di parole per trasmettere i messaggi e viene ottenuta scrivendo e parlando attraverso un codice che deve essere compreso da entrambi gli interlocutori. Il linguaggio diviene, quindi, lo strumento della comunicazione verbale e il problema nasce proprio dal tipo di codice usato. Infatti, mentre la comprensione di un gesto può essere immediata, per riuscire a esprimere con le parole uno stesso concetto, occorre formularlo con le parole giuste e interpretarlo correttamente. Una stessa parola non sempre viene interpretata allo stesso modo da tutti i membri di un gruppo, per cui risulta importante convalidarne il significato tra gli stessi interlocutori.

Bisogna anche sottolineare l’importanza del tono della voce. L’aspetto sonoro della voce è il primo a essere percepito e, a volte, viene analizzato in modo inconsapevole. Noi Italiani siamo abituati a un tono di voce “alto”, quasi “urlato”, e questo, per noi, ha un significato di coinvolgimento, di partecipazione e non di irritazione, ma, anche quando è calmo, il nostro tono di voce non è gradito nelle altre culture anche europee, e soprattutto in Oriente, dove è diffusa la tendenza a “sussurrare”. Per gli orientali, inoltre, è inaccettabile un’intonazione che esprime sentimenti, perché la non espressione emotiva rientra nel loro costume.

Oltre al tono, anche la velocità del parlato assume significati diversi a seconda delle culture. Per esempio, i francesi ritengono che chi parla velocemente dimostri incapacità di auto-controllo e ne hanno un’opinione negativa, mentre gli italiani e i cinesi tendono naturalmente a rallentare quando parlano con uno straniero, cercando di mostrare la propria collaborazione. La comunicazione scritta trasferisce un simbolo pensato o detto in forma stampata, ed è una forma di comunicazione in cui una persona si può rifugiare per essere capito dagli altri, ma anche una possibilità di comunicazione più efficace per molte persone che non riescono a esprimersi o a farsi capire con la comunicazione verbale.

La comunicazione non verbale è il modo con il quale si dà “colore” alle parole dette, ma, soprattutto, attraverso di essa, si esprimono le emozioni più profonde e più vere, fatte di gesti, atteggiamenti e silenzi. Nella comunicazione, il messaggio viene trasmesso solo per il 7% dalle parole e per il 38% dal tono della voce e per il 55% viene comunicato attraverso il linguaggio del corpo. A volte, il suo ruolo viene trascurato, ma può essere più importante di quello della comunicazione verbale, con la quale può entrare in contraddizione. Infatti, siamo prima visti e, poi, ascoltati: il nostro corpo è fonte di molte informazioni involontarie è può essere usato anche per veicolare significati volontari o per sottolineare significati espressi dalla lingua.

La comunicazione è un elemento essenziale dell’assistenza e la conoscenza degli elementi del processo di comunicazione è utile al sanitario, in quanto, a volte, alcune difficoltà strettamente legate ad essa possono essere scoperte attraverso l’identificazione di uno o più elementi. Un esempio è proprio quello del paziente che parla una lingua diversa. Tutto ciò che accade nel rapporto sanitario-paziente coinvolge qualche forma o modo di comunicazione, come, per esempio, ascoltare un paziente agitato, educare il paziente al concetto di salute o eseguire una procedura.

La comunicazione interculturale attraverso i linguaggi non verbali pone alcuni problemi ai quali non si presta di solito alcuna attenzione, perché li si ritiene universali, naturali, globalmente condivisi, mentre sono altrettanto culturali quanto le lingue verbali: le varie parti del nostro corpo ci dicono qualcosa della nostra cultura.

Posizioni e atteggiamenti corporali

Vediamo, ora, alcuni aspetti culturali, tralasciando le interpretazioni d’ordine psicologico che si attribuiscono alle posizioni e agli atteggiamenti che il nostro corpo assume.

Viso. L’espressione del viso esprime le nostre emozioni, le nostre sensazioni e i nostri pensieri, ed è cosa normale e spontanea nella cultura mediterranea, in Russia e in alcune aree degli Stati Uniti. Nell’Europa del Nord, queste manifestazioni esterne vengono abbastanza controllate, mentre in Oriente sono, invece, poco gradite. La spontaneità è un concetto non concepibile in Oriente, tanto che, fin dall’infanzia, si educano i bambini alla riservatezza dei propri sentimenti e a non renderli visibili con lo sguardo. Il controllo emozionale deve essere massimo nella cultura turca, soprattutto per le donne, che devono essere impassibili.

Il sorriso riveste, di norma, un significato interessante. Fra gli europei il sorriso comunica a chi sta parlando un generico accordo su quanto si sta dicendo, ma ciò può non essere altrettanto certo per altre culture. Per esempio, per non offendere un ospite straniero con un diniego, un giapponese può limitarsi a sorridere e rimanere in silenzio, in quanto per lui non vige la nostra equazione “silenzio = assenso”.

Per quanto riguarda gli occhi, in genere noi consideriamo che il guardare negli occhi l’interlocutore è segno di franchezza, mentre in altre culture, per esempio nei paesi arabi, il fissare un uomo dritto negli occhi può comunicare una sfida, mentre, se si fissa una donna, si comunica una proposta erotica. Per un cinese, ciò diventa segno di attenzione, mentre i giapponesi non si guardano negli occhi durante un commiato. Gli occhi abbassati, quasi chiusi in una fessura, nei paesi europei, vengono, di norma, interpretati come disattenzione, ma, in Giappone, possono rappresentare una forma di rispetto. Infine, pur non trattandosi di un’espressione del viso, ma di un movimento di tutta la testa, dobbiamo osservare la lettura culturale che viene attribuita all’annuire: un gesto spontaneo che significa assenso, accordo, ma che, nella cultura del Mediterraneo orientale, significa “no”.

Braccia e mani. Spesso, non si sa dove tenere le braccia e le mani e, alle volte, si risolve il problema tenendole accanto al corpo e ponendo una mano in tasca. Nella cultura occidentale, le donne che tengono le mani in tasca comunicano uno stato di informalità, in Turchia, invece, viene licenziato il lavoratore che si rivolge a un superiore tenendo le mani in tasca. Anche la stretta di mano assume significati culturali diversi: nella nostra cultura, una stretta molto decisa dimostra sincerità e virilità, ma, in altre, è vissuta come un fastidio. La stretta di mano è inusuale nella cultura orientale, dove il saluto è espresso con un inchino, pertanto, quando un orientale si trova a dover stringere la mano, non sa dosarne la forza e una stretta troppo vigorosa, in questo caso, non riveste alcun significato. Nella cultura araba, la stretta di mano è da considerare inesistente e la mano sinistra è considerata impura. Esistono, inoltre, gesti della mano che sostituiscono le parole o ne sottolineano il significato, ma che hanno significati diversi a seconda del contesto culturale. Per esempio, il classico gesto americano che significa “ok”, esibito in un paese dell’Estremo Oriente, ha un significato estremamente offensivo oppure il gesto tipico che, per noi italiani, invita a “stringere, riassumere, venire al dunque di un discorso ecc.” viene interpretato come un volgare invito sessuale, nella cultura turca.

Gambe e piedi. Incrociare le gambe in una posizione che lascia vedere la suola delle scarpe può comunicare scarso rispetto, soprattutto nella cultura araba, dove viene letta come espressione di disprezzo. Ciò accade anche quando si accavallano le gambe. Nella cultura scandinava e medio-orientale, il togliersi le scarpe è un gesto naturale che è indice di relax o rispetto, come nel caso delle moschee.

Il bacio. Fino a qualche anno fa era molto diffuso e dato frequentemente nelle situazioni ufficiali: se ne scambiavano tre in Francia e in Russia. Ora rimane solo come segno di amicizia e affetto. In Giappone viene escluso in modo categorico il bacio in pubblico anche tra parenti, mentre, in altre culture medio-orientali, il bacio è d’obbligo in pubblico anche tra i giovani maschi. Nella Tabella I è mostrata una sintesi sui possibili fraintendimenti interculturali per quanto riguarda il sorriso, gli occhi e il bacio.

Oltre alle diverse parti del corpo, gli oggetti che si pongono sul corpo e intorno ad esso sono, solitamente, tutti status-symbol che comunicano il ruolo sociale di chi parla. In alcuni casi, sono anche indicatori di rispetto per l’interlocutore: è importante il valore comunicativo del mostrare rispetto per l’interlocutore, ma ciò si modifica da cultura a cultura, con il rischio che questa indicazione non venga compresa o che, peggio, venga mal interpretata.

TABELLA I - Fraintendimenti interculturali per sorriso, occhi e bacio
Cultura Sorriso Occhi Bacio
Occidentali

1) In generale, è segno di approvazione, di assenso.

2) Sono in azione tutti i muscoli del viso, in particolare quelli della bocca.

3) Notevole espressione emotiva. Apertura.

1) Guardarsi negli occhi è interpretato come segno di fiducia, di affidabilità, di sincerità.

2) Non guardarsi negli occhi può essere interpretato come mancanza di sincerità, insicurezza.

3) Un contatto visivo troppo frequente, troppo intenso, può creare disagio.

1) In Olanda, Belgio, Svizzera e Polonia, si danno 3 baci, partendo dalla guancia destra.

2) In Russia, era, in passato, normale baciarsi sulle labbra tra uomini.

Altre culture

1) In Oriente, rappresenta un sistema di non offesa. Poca azione a livello dei muscoli del viso, in particolare di quelli della bocca. Espresso meglio con gli occhi.

2) In Oriente, è un mezzo per esteriorizzare un non controllo emotivo, un momento di disagio.

1) Nei paesi arabi, lo scambio di sguardi tra uomini e donne che non sono sposati è considerato indecoroso e invadente.

2) I giapponesi e i cinesi hanno un contatto visivo molto breve.

Gli sguardi con una durata superiore ai 2 secondi sono considerati irrispettosi e possono causare una forte irritazione, soprattutto se sono rivolti ai propri superiori.

3) In Asia meridionale, il contatto visivo diretto è interpretato come disprezzo e, tra i partner, non guardarsi negli occhi è considerato un aspetto piacevole e positivo.

1) In Egitto, il bacio in pubblico è proibito, essendo interpretato come preliminare di un atto sessuale.

2) In Giappone, è buona norma aspettare fino ai 16 anni per dare il primo bacio.

3) Il triplo bacio è tipico anche delle culture ortodosse.

4) Nei paesi arabi, il bacio tra uomini è molto diffuso, mentre quello tra uomini e donne viene evitato.

Immigrazione e lingua

Il fenomeno dell’immigrazione ha spesso indotto, nella popolazione residente, reazioni di diverso tipo: dalla xenofobia, spesso accompagnata da comportamenti più o meno razzisti, all’acritica accoglienza che giustifica ogni aspetto dell’immigrazione, al paternalismo assistenziale e alla ricerca di un dialogo interculturale.

Anche gli operatori sanitari, di fronte all’immigrato, manifestano delle reazioni simili a quelle della società nel suo complesso, che vanno dall’ostilità aperta all’incondizionata accoglienza. È importante, per gli operatori sanitari, cogliere l’opportunità che ci viene dall’incontro con culture diverse, perché la relazione interculturale offre l’occasione di mediare anche sulla relazione con gli utenti iso-culturali. Nella relazione con l’utente immigrato, si presentano inevitabilmente dei fraintendimenti, perché spesso non si riesce a decodificare quanto il malato vuole trasmetterci. A volte, questa incomprensione può derivare dalla difficoltà dell’immigrato nel comunicare le proprie sensazioni interiori. È pur vero che questo è un problema che esiste anche nella relazione iso-culturale: è un’esperienza diffusa quella di avere difficoltà a riconoscere e a esprimere i propri vissuti interiori. In un ambito interculturale, questa difficoltà risulta maggiore per il diverso approccio che le culture hanno con la propria interiorità.

Un’altra difficoltà evidente che determina incomprensione si presenta quando gli interlocutori non hanno una lingua comune. Questo problema, che era assai frequente nei primi anni di immigrazione, va riducendosi perché gli immigrati in grado di esprimersi in un italiano sufficiente stanno aumentando. Tuttavia, accanto ai problemi strettamente lessicali, ci sono quelli semantici: infatti non c’è una sovrapposizione completa dei significati semantici delle parole nelle diverse lingue. Per esempio, nella lingua somala, la parola kili significa reni e identifica l’area addominale anterolaterale, mentre, nel nostro linguaggio quotidiano, per reni si intende l’area dorsale ai lati del rachide. Da ciò, si evince che, quando un italiano afferma di avere mal di reni, vuol dire che ha una lombalgia, mentre, per un somalo, può significare un dolore al colon. Questo esempio ci deve far riflettere sul fatto che non bisogna mai dare nulla per scontato, ma che dobbiamo sempre verificare quanto si pensa di aver capito.

Un’altra fonte di fraintendimento può ravvisarsi nel fatto che, nelle diverse lingue, esiste un livello simbolico per cui a un termine possono corrispondere significati astratti diversi per chi parla e per chi ascolta. Un significativo esempio di riferimento simbolico di malattia è relativo all’uso della parola cancro, che, nella nostra cultura, è associata all’idea della morte. Se la utilizziamo nel suo significato simbolico, non verremo sicuramente capiti da coloro che provengono da paesi dove la causa maggiore di morte è legata a patologie infettive: in questo caso, il significato di morte è maggiormente veicolato dalla parola diarrea.

L’immigrato che utilizza questo termine legato alla condizione di diarrea con il significato simbolico di paura della morte non verrebbe capito da noi, che associamo al termine il significato di disturbo fastidioso, ma certamente non grave e lontano dall’evento morte. In termini meta-linguistici, la situazione di incomprensione, che è frequente e quasi inevitabile nella relazione interculturale, potrebbe anche verificarsi nel dialogo iso-culturale. Esistono, infatti, molti sottintesi anche tra persone che apparentemente condividono la stessa origine geografica e culturale. Si impone, quindi, ancora di più una continua verifica di quanto siamo convinti di aver compreso.

Appare evidente che quanto detto finora si riferisce alla dimensione culturale di una persona. Tuttavia, considerando l’importanza delle differenze culturali, per comprendere l’utente immigrato, bisognerebbe teoricamente conoscere almeno in modo sufficientemente approfondito tutte le culture. Le informazioni assorbite dalla famiglia, dalla società e dalla religione costituiscono una sorta di imprinting con cui l’individuo definisce la propria identità culturale, che, tuttavia, non è da considerare qualcosa di statico, ma di dinamico, perché si interseca con i riferimenti che la persona assorbe dall’ambiente che lo circonda e, per un immigrato, con il contesto di insediamento.

Le incomprensioni e i fraintendimenti generano, quindi, distorsioni nell’interpretazione dei messaggi inviati dai differenti interlocutori: è, quindi, possibile che la comunicazione tra soggetti di cultura dissimile possa fallire a causa proprio del diverso significato che ciascun individuo assegna alle parole. Tutto ciò ha un’inevitabile ricaduta sul piano emotivo da parte del paziente immigrato, che si trova confuso e disorientato nell’interagire sociale (3).

La relazione con l’utente straniero

Al di là della provenienza, con l’ingresso in ospedale, sia come utenti che come operatori, sperimentiamo tutti una condizione di estraneità. Siamo tutti stranieri in ospedale. Interventi ed eventi che obbligano un individuo straniero ad allontanarsi dal suo contesto quotidiano di vita fanno di quell’individuo un soggetto vulnerabile, per mancanza di conoscenze riguardo all’accessibilità della struttura ospedaliera e alla fruibilità dei servizi, per mancanza di conoscenze riguardo alla terminologia medica, per non conoscenza della lingua e per la difficoltà nella condivisione del senso del male (4).

L’evoluzione del fenomeno migratorio richiede di definire politiche non più fondate su servizi speciali o dedicati, ma su servizi per tutti. L’obiettivo è, quindi, quello di mettere i professionisti della salute nelle condizioni di accogliere l’utente straniero in maniera efficace e con modalità culturalmente sensibili. Tale obiettivo è raggiungibile attraverso l’implementazione di tre strategie. La prima strategia è la semplificazione delle procedure nell’accesso ai servizi. L’incremento della diversificazione del tipo di utenza che accede ai servizi del Sistema Sanitario Nazionale (SSN) e la complessità della domanda di salute che lo straniero porta, dato il suo background culturale “diverso”, fanno emergere la necessità di rendere i servizi e i percorsi di cura più flessibili. La complessità della domanda di salute sta nel fatto di non essere più riconducibile a un’unica risposta, ma di richiedere una serie di risposte da parte di servizi, strutture e professionisti diversi. Per fornire una risposta efficace e, dunque, multidimensionale, è necessario che gli attori e i servizi coinvolti siano inseriti in una rete che faciliti la comunicazione. Il lavoro di rete tra i servizi riduce, da un lato, l’isolamento dell’utente straniero e, allo stesso tempo, l’isolamento dell’operatore, che non si sente più solo di fronte all’utente.

La scarsa conoscenza dei servizi e il senso di “spaesamento” che il paziente straniero sperimenta quando vi accede mettono ulteriormente alla prova il funzionamento del lavoro in rete del sistema salute. Le procedure codificate e fortemente standardizzate, pensate per utenti omologati tra di loro, non funzionano sul piano della realtà. Esse sono il retaggio di quel modello biomedico in cui il professionista della salute e la struttura che rappresenta sono padroni in casa, e l’utente è costretto ad attenersi alle regole, rigide, interne all’organizzazione. L’utente straniero, con la sua specificità e la sua peculiarità, la complessità relazionale che lo accompagna e la sua domanda di salute, richiede strategie operative e percorsi di cura più flessibili e maggiormente in grado di adattarsi ai bisogni della persona. Tali metodi operativi permetteranno al professionista di leggere, valorizzare e utilizzare in maniera più efficace le risorse specifiche e le potenzialità dell’utente, favorendo, così, la sua autonomia e la sua autodeterminazione.

La seconda strategia è la formazione specifica degli operatori nei temi transculturali, negli stili comunicativi e nella mediazione dei conflitti. Questo strumento ha la finalità di rendere il professionista della salute, sia esso personale medico, infermieristico, tecnico e amministrativo, più sensibile all’accoglimento della persona straniera, in maniera culturalmente sensibile e con un approccio transculturale.

Il momento dell’accoglienza dell’utente è il più importante: esso determinerà in gran parte l’esito della buona presa in carico da parte del servizio. È, infatti, con la prima risposta data dal servizio che l’utente straniero stabilirà il legame di fiducia con il professionista. La formazione deve, quindi, puntare alla promozione della cultura dell’accoglienza. In particolare, l’obiettivo della formazione specifica deve essere quello di rendere il professionista più consapevole: 1) dei propri stili comunicativi; 2) della propria reazione emotiva nell’incontro con la diversità; 3) delle credenze e degli stereotipi nei confronti dell’utenza straniera.

Per un sanitario, prendersi uno spazio per riflettere sui propri vissuti, sui propri stereotipi e sui propri pregiudizi, stimolando curiosità e stupore verso l’altro e il diverso, ha come obiettivo quello di creare un atteggiamento mentale di apertura e di sospensione del giudizio, per stimolare la ricerca di spazi di negoziazione. Nella nostra cultura, i termini “pregiudizio” e “stereotipo” sono carichi di un forte significato negativo: è raro che si riconosca esplicitamente di pensare e agire in base ad essi. Ma, in realtà, vengono messi in atto sia nei confronti della diversità etnica che nella vita quotidiana relazionandosi con le persone. Crescendo in una comunità e imparando una certa lingua, facciamo nostre le complesse gerarchie di premesse implicite che in quell’ambiente sono date per scontate e che costituiscono il terreno sicuro che ci consente di capirci l’un l’altro.

L’obiettivo della formazione transculturale è quello di creare momenti in cui l’operatore abbia la possibilità di socializzare, per esempio l’imbarazzo e i vissuti interiori di disagio, e di rendere esplicite le premesse implicite attraverso la socializzazione. Sono, infatti, le premesse implicite che formano la cornice di riferimento, ovvero il filtro percettivo e valutativo attraverso cui leggiamo la realtà. Per uscire dalla propria cornice di riferimento e mettere in discussione le proprie premesse implicite, è necessario dare spazio alle emozioni, contrastanti e, anche, imbarazzate, che la persona vive quando sperimenta l’incontro con una cornice culturale diversa dalla propria. Se lo “spiazzamento” e i sentimenti di ridicolo, di ansia e di imbarazzo vengono vissuti non con un atteggiamento difensivo-offensivo, ma con un atteggiamento esplorativo e di scoperta, è possibile uscire dalla propria cornice ed entrare in quella dell’altro. Accettare la possibilità che la visione del mondo dell’altro possa essere corretta non implica di rinunciare alle proprie cornici e ai propri giudizi.

Le emozioni ci danno informazioni non su cosa vediamo, ma su come guardiamo. Esse ci dicono qualcosa sulle cornici sociali e culturali che usiamo per interpretare il mondo. Lo spiazzamento emozionale, come lo stupore, ci induce a riflettere sui cambiamenti inattesi degli scenari e ci costringere a rendere esplicite le premesse implicite che davamo per scontate (5). L’imbarazzo è, dunque, considerato non come handicap, ma come preziosa risorsa per imparare a vedere il mondo in modo diverso e inesplorato. Risalire alle cornici di riferimento dell’altro non implica che sia necessario condividerle, ma serve solo a capirle meglio, più profondamente. Il non riconoscimento della reciproca diversità, rinunciando a far passare il proprio patrimonio culturale nella logica dell’accettazione incondizionata, conduce a situazioni di rigidità e a uno stallo nella comunicazione.

Collegata alla consapevolezza emotiva è la capacità di attuare un ascolto di tipo empatico da parte del professionista della salute. I sentimenti, le cognizioni e le aspettative dell’utente diventano temi centrali da approfondire per poter raggiungere gli obiettivi di salute. La centralità dell’ascolto empatico da parte dell’operatore sanitario è data dal fatto che esso favorisce il clima di fiducia e agevola la raccolta di ulteriori dati. Inoltre, aiuta la persona a elaborare le emozioni e le preoccupazioni che la sua condizione suscita. Proprio perché la persona può esprimere i propri timori, essa si sente ascoltata e accettata, e ciò le consente di vivere pienamente i propri sentimenti. In questo senso, il professionista della salute risulta essere un modello di coping per la persona, in quanto favorisce e promuove l’individuazione e l’implementazione di strategie per adattarsi e fronteggiare la malattia.

La terza strategia è il supporto del mediatore interculturale agli operatori dei servizi, che affronteremo nel paragrafo successivo.

Sanitari e mediatore culturale

Il modello clinico-scientifico del sanitario occidentale si scontra con il modo di interpretare i sintomi delle persone provenienti da altre culture e, anche quando vi sia la volontà di comprendere l’altro, sono inevitabili i fraintendimenti e i problemi di decodifica del messaggio del malato. È utile sottolineare che anche i sintomi delle malattie sono legati a schemi di riferimento della cultura di appartenenza. Gli studi sull’argomento indicano come una stessa malattia, in diversi gruppi etnici, possa manifestarsi con quadri sintomatologici sensibilmente diversi, come conseguenza di un’attenzione selettiva verso gli stimoli fisici e le esperienze psichiche. Esistono le cosiddette “culture-bound syndromes”, cioè malattie specifiche di determinate culture, di cui si è iniziato solo in tempi assai recenti a riscontrare qualche caso in immigrati presenti in Italia.

Le differenze etniche e culturali con i pazienti sono ulteriori complicanze in un rapporto già difficile in sé, e molti sanitari si possono interrogare sul disagio che scaturisce dall’entrare in relazione con l’utente originario di aree culturali diverse o sulle condizioni che possono facilitare uno scambio o sull’insoddisfazione che può derivare dal non riuscire a soddisfare i bisogni dell’utente. Per prendersene cura, è sicuramente necessario possedere delle conoscenze di carattere generale sul problema dell’immigrazione, come l’incidenza del fenomeno, le caratteristiche socio-demografiche, la legislazione vigente e, soprattutto, gli aspetti comportamentali e culturali.

Occorre creare una lingua della malattia, che sappia, cioè, comunicare, letteralmente mettere in comune, non tanto dei contenuti, quanto piuttosto un atteggiamento: un’apertura in ascolto che sia in grado di rimettere in movimento proprio le situazioni non comunicanti, quelle, cioè, in apparenza chiuse a una possibile mediazione.

L’immigrato avverte una sensazione di perdita di segnali di riferimento sia familiari che esistenziali alle prime difficoltà, come avviene, per esempio, in caso di senso di rifiuto da parte degli autoctoni, di nostalgia e di paura di perdere la propria salute. In queste situazioni, in cui le difficoltà comunicative sono fortemente manifeste, diviene necessario avvalersi di strumenti e di agenti di “mediazione”, che sostengano il processo di scambio con interventi di traduzione linguistica, ma, soprattutto, di interpretazione dei significati.

Tali considerazioni non possono che portarci a pensare alla necessità di una figura professionale che faccia da intermediario fra le culture, che non solo traduca il significato letterale delle parole, ma che sia anche in grado di operare una traduzione a livello simbolico e che favorisca l’inserimento della popolazione immigrata nella società, attuando una sorta di ponte tra la persona e la società accogliente.

Una definizione generale di mediazione utile per capire il ruolo del mediatore interculturale la fornisce Castelli: “La mediazione è un processo attraverso il quale due o più parti si rivolgono liberamente a un terzo neutrale, il mediatore, per ridurre gli effetti indesiderabili di un grave conflitto. La mediazione mira a ristabilire il dialogo tra le parti per poter raggiungere un obiettivo concreto: la realizzazione di un progetto di riorganizzazione delle relazioni che risulti il più possibile soddisfacente per tutti” (6).

Ma la definizione di mediazione non basta, è la dimensione interculturale che definisce in maniera più raffinata la figura del mediatore. Se sposiamo l’assunto che la cultura non è formata, non è univoca, ma è dinamica, il concetto di mediazione interculturale non può essere ridotto alla funzione di interpretazione della cultura dell’altro. Il termine “inter” vuole, infatti, porre l’accento sul concetto di scambio e di reciprocità e, allo stesso tempo, valorizzare la soggettività dell’altro, evitando di incasellare ed etichettare lo straniero come appartenente a una cultura piuttosto che a un’altra. Per entrare nel mondo dell’altro e perché avvenga un incontro autentico, non è necessario essere esperti della cultura di appartenenza. Persino possedere un canale comunicativo linguistico comune non è un prerequisito necessario per accogliere l’altro. Il mediatore è un costruttore di ponti che, nell’ambito della salute, mette in relazione il mondo dell’utente straniero e quello del professionista della salute. La mediazione, dunque, non ha lo scopo di descrivere le differenze culturali, quanto di sostenere e facilitare la relazione tra le persone. Il mediatore è, dunque, un facilitatore dell’incontro, in quanto fa emergere e valorizza punti di vista differenti. Il mediatore deve possedere competenze relazionali che, per gli aspetti cognitivi, riguardano l’apertura, la capacità di sospensione del giudizio e la consapevolezza dei punti di vista differenti, mentre, per gli aspetti affettivi, il decentramento del proprio punto di vista, l’ascolto attivo, l’empatia e l’identificazione delle emozioni (7).

Il mediatore interculturale

Il concetto di “mediazione culturale” si è diffuso dopo la Seconda Guerra Mondiale fra le nazioni che hanno fatto ricorso a strategie diplomatiche e politiche di non intervento bellico. In tempi più recenti, la mediazione si reinventa e si diffonde soprattutto nell’ambito del volontariato come intervento di sostegno per le persone che si trovano in situazioni di disagio.

La psicologa francese Margalit Cohen Emerique ha approfondito l’area interculturale nell’ambito della mediazione culturale finalizzata all’integrazione della persona immigrata e ha distinto tre tipologie di significato del termine mediazione. Il primo significato corrisponde all’azione di “intermediario” in situazioni in cui non c’è conflitto, ma ci sono difficoltà di comunicazione. In questa situazione, la mediazione consiste nel facilitare la comunicazione e la comprensione tra persone di culture diverse e nel dissipare i malintesi dovuti in prevalenza a un diverso sistema di codici e valori. Il secondo significato si riferisce all’area della risoluzione dei conflitti di valore tra la famiglia immigrata e la società di accoglienza o all’interno della famiglia stessa. In questo contesto, gli interventi sono sempre piuttosto difficoltosi, sia quelli degli operatori sociali, troppo esterni ai codici culturali diversi della famiglia, che quelli del mediatore, che accede a una conoscenza più interna per una maggiore vicinanza all’utente.

Il terzo significato di mediazione fa riferimento al processo di creazione, implicando l’idea di trasformazione sociale e di costruzione di nuove norme basate su azioni effettuate e finalizzate alla risoluzione di problemi (8).

Il mediatore interculturale deve sviluppare le seguenti capacità personali e relazionali: 1) capacità di ascolto attivo; 2) essere consapevole delle proprie e delle altrui cornici culturali e riconoscerle; 3) consapevolezza emotiva; 4) gestione creativa dei conflitti. Se la mediazione interculturale avviene all’interno di una cornice teorica di tipo transculturale, quali competenze deve possedere il mediatore? È necessario che il background linguistico-culturale dell’utente straniero e quello del mediatore coincidano? Se il mediatore possiede le meta-competenze descritte sopra la risposta può essere: non è necessario un background culturale comune. Se, però, consideriamo il fatto che la mediazione avviene su più piani e con diversi livelli di complessità, possiamo dire che ogni situazione richiede un tipo di mediatore diverso. Restando in ambito sanitario, è possibile che il professionista della salute abbia la necessità di superare l’ostacolo linguistico contingente a una situazione di emergenza o dove la relazione di fiducia tra le parti si è già istaurata ed è solo la comunicazione sul piano verbale a essere difficoltosa. In questa situazione, in cui il bisogno di mediazione è spostato sul piano pratico della comunicazione linguistica e gli aspetti culturali degli attori restano in secondo piano, è necessario che il mediatore conosca la lingua parlata dall’utente. Se la lingua non è il solo ostacolo nella relazione, sono le meta-competenze a prendere il sopravvento.

Nella realtà italiana, la storia della mediazione culturale nasce come mediazione spontanea con interventi di sostegno in situazioni informali con un ruolo quasi esclusivamente di rappresentanza e di difesa. Si tratta di un’azione definita con un termine anglosassone di “advocacy”, con il quale si intende la difesa dei diritti dell’utente, che avviene rappresentandolo e parlando in sua vece. Il concetto di “advocacy” si contrappone a quello di “empowerment”, con il quale si intendono il sostegno e l’aiuto dati alla persona in difficoltà affinché utilizzi nel modo corretto le informazioni e metta in atto le strategie più idonee per risolvere i problemi. In questo caso, il mediatore fa sì che l’immigrato possa rappresentarsi autonomamente e diviene un facilitatore di comunicazione. Il mediatore deve essere imparziale, conoscere entrambe le culture, essere in grado di individuare gli ostacoli e, infine, costruire un linguaggio condivisibile grazie al quale è possibile avviare un dialogo efficace.

Secondo il parere di Castiglioni, le funzioni del mediatore sono: 1) interpretare in termini culturali il disagio psico-sociale connesso al processo di immigrazione, in modo che questo disagio diventi “visibile” all’operatore italiano e che l’utente straniero sia messo nelle condizioni di esprimersi; 2) fungere da interfaccia sia dell’operatore italiano che dell’utente, facilitando le esigenze di comunicazione di entrambi; 3) aiutare il processo di inserimento nella realtà italiana del cittadino straniero favorendo la conoscenza e l’utilizzo dei servizi presenti nel territorio;4) accogliere la diversità del vissuto di benessere e di malessere e trasmetterlo in modo comprensibile all’operatore italiano (8).

Volendola analizzare in modo più approfondito, è possibile descrivere la mediazione culturale come un processo di decodifica della comunicazione, che si esplicita su tre livelli.

  1. Livello di ordine pratico-orientativo: è la forma di mediazione richiesta in maniera esplicita da coloro che si trovano disorientati di fronte a un sistema burocratico-amministrativo a loro sconosciuto. In questo caso, il mediatore è chiamato a fornire spiegazioni sui percorsi all’interno del sistema politico e privato. In genere, si tratta di una forma di mediazione spontanea e informale di norma utilizzata dalle etnie minoritarie per il disbrigo di pratiche burocratico-amministrative (per esempio, rivolgersi al servizio sanitario per le vaccinazioni). Questo tipo di mediazione risente facilmente della soggettività di chi la esercita e, inoltre, il mediatore informale non è tenuto a conoscere esattamente tutti gli aspetti legislativi e amministrativi dei servizi.
  2. Livello linguistico-comunicativo: è la situazione nella quale la figura del mediatore assume una connotazione molto importante, perché deve assicurarsi che i due interlocutori capiscano non solo le parole, ma anche il significato ad esse attribuito. Il compito è quello di spiegare le differenze culturali, guidando tutte e due le parti verso una reciproca comprensione; deve essere in grado di entrare, per un istante, nell’immaginazione culturale dell’altro. A questo livello, il mediatore deve permettere alle due culture di incontrarsi, deve riuscire a creare un contesto comunicativo che faciliti la comprensione dei messaggi e deve, soprattutto, dimostrarsi imparziale, evitando giudizi di valore o forme di censura che possano generare incompatibilità.
  3. Livello psico-sociale: questo livello richiama il concetto di identità culturale relativo all’esperienza della migrazione. Ricordiamo che il migrante deve ridefinire la propria identità personale, messa in crisi dall’incontro con un nuovo mondo culturale. Questa ridefinizione deve, da un lato, garantire l’adattamento dell’individuo alla nuova situazione e, dall’altro, la continuità dell’identità precedentemente costruita e l’aderenza ad essa. In questo contesto, la mediazione culturale deve diventare agente di cambiamento e il mediatore rappresenta la possibilità di realizzare questo passaggio senza distruggere la stabilità psicologica della persona straniera.

La funzione del mediatore culturale è tutt’altro che semplice, non dovendosi limitare alla traduzione e all’interpretariato, ma dovendo comprendere un intervento linguistico culturale a vari livelli. L’interpretariato produce, infatti, la semplice traduzione da una lingua all’altra (e viceversa) o, nel migliore dei casi, traduce (interpreta) i disturbi in sintomi. La mediazione linguistico-culturale è un tipo di comunicazione molto complessa. Nel normale feedback comunicativo, il mediatore si inserisce come interfaccia tra operatore e utente, la comunicazione diventa triangolare ed è in questa specificità che risiede la complessità della mediazione linguistica.

Difficoltà del mediatore interculturale

È evidente che il compito di questa figura è molto complesso e implica non solo una preparazione adeguata, ma anche una sensibilità e una disponibilità particolari, un percorso personale che conduca a una rivisitazione del proprio essere straniero e una visione critica della propria cultura di appartenenza. La prima e più grande difficoltà della mediazione linguistico-culturale risiede nella posizione centrale che la figura del mediatore acquista nella comunicazione, con la possibilità di incorrere in due rischi fondamentali: da un lato, identificarsi con il paziente, soprattutto se quest’ultimo appartiene allo stesso paese, alla stessa cultura o alla stessa etnia, e, dall’altro, cadere nell’errore opposto di identificarsi con il servizio. Nel primo caso, il mediatore incorre in questo errore quando si lascia coinvolgere e trascinare dall’emotività del paziente e non riesce a stabilire un argine entro il quale contenere le aspettative espresse: valori, interessi diffusi e sentimenti che devono essere accolti e decodificati senza dimenticare il ruolo di interfaccia con l’operatore italiano. L’identificazione sbilancia la comunicazione nel senso di favorire un feedback che esclude l’operatore italiano. Nel secondo caso, il mediatore diventa il portavoce del servizio, imponendo rigidamente le modalità omologanti con cui spesso i servizi sono organizzati.

Quindi, una difficoltà notevole per il mediatore è trovare la “giusta distanza” tra le sue due appartenenze, quella di straniero che condivide le condizioni degli utenti con cui viene a contatto e quella di operatore dei servizi, testimone della loro cultura e delle loro necessità.

Inoltre, la mediazione può essere influenzata negativamente da fattori quali il sesso, la nazionalità e il livello culturale. Per esempio, la mediazione con le donne arabe deve essere tenuta da persone di sesso femminile, visto che alcuni valori di queste condizionano fortemente la comunicazione: l’educazione legata alla separazione dei sessi, il marcato senso del pudore e la mancanza di una dissociazione dal corpo non devono assolutamente essere sottovalutati nel rapporto con loro.

Come è già stato ribadito più volte, bisogna considerare il fatto che non sempre è facile trovare le parole giuste, in quanto non sempre vi è un corrispettivo letterale di una determinata parola o di un certo concetto. Pensiamo, per esempio, alla differenza che esiste fra il significato che noi diamo al termine “ammalarsi” e quello dato dalle donne peruviane: per loro, significa “non avere le mestruazioni”, per noi rimane un concetto generale che può sottintendere qualsiasi tipo di patologia. Il mediatore culturale esiste quando qualcuno o qualcosa richiedono questa funzione e la riconoscono espressamente a una persona di altra lingua e di altra etnia: il suo ruolo deve essere esplicito, consapevole e improntato a regole precise e condivise: è sicuramente un ruolo attivo, la cui importanza deve essere riconosciuta e definita. È necessario che la competenza nella mediazione interculturale diventi patrimonio di tutti quelli che vivono e operano in realtà multietniche e multiculturali.

La competenza comunicativa deve avvalersi di orientamenti valoriali, come apertura alla diversità, flessibilità e assenza di pregiudizi; deve protendere verso l’alterità, costruendo gli strumenti necessari per comunicare positivamente per evitare e/o gestire i conflitti culturali (9).

Il compito del mediatore interculturale non è quello di risolvere il problema, ma, piuttosto, è quello di educare ad affrontare in modo creativo le tipiche e inevitabili incomprensioni e gli equivoci dell’incontro interculturale. Il mediatore dovrebbe insegnare a non essere riduzionisti e a non “edulcorare” gli incidenti culturali (l’imbarazzo, le reazioni inattese, le brutte figure), facendoli diventare fonti di nuova conoscenza e di ampliamento delle possibilità di ciascuno (10).

Conclusioni

Il nostro tempo è caratterizzato da nuovi termini e concetti: alterità, società multietnica, problematiche transculturali. Tutto questo ci fa riflettere su una società in trasformazione con la quale ognuno di noi, quotidianamente, ha modo di confrontarsi.

I sanitari, indipendentemente dalla concezione filosofica o dal modello assistenziale che applicano, sono consapevoli che il concetto di “care” può essere efficace solamente se si basa su un atteggiamento volto a educare e ad aiutare l’altro a crescere, a sfruttare tutte le risorse e le potenzialità possedute e a essere attore della propria salute e non solo soggetto di cure, ovvero colui che pazienta, il paziente, appunto. Appare fondamentale ripensare a una formazione universitaria in cui è necessario potenziare il curriculum con le discipline demo-etno-antropologiche, di antropologia culturale e di antropologia sociale.

L’antropologia sociale, per esempio, è in grado di fornire un utile contributo sia alla teoria che alla pratica dei sanitari, dove l’oggetto della ricerca antropologica è l’uomo, ed è all’uomo e alla collettività che si rivolge l’assistenza sanitaria. È necessario comprendere i bisogni della persona posta al centro della nostra attenzione e i suoi interessi e capire il suo stile di vita e il suo punto di vista nel vivere tutti gli aspetti della sfera salute/malattia.

I sanitari non si rapportano con una “persona astratta”, ma con una persona o con gruppi portatori di un patrimonio culturale e di valori dinamici in costante evoluzione, che agiscono sulla percezione della salute e sulle manifestazioni di un bisogno. È indubbio che accogliere e assistere pazienti stranieri diventano, per tutti noi, momenti molto complessi, che implicano uno sforzo e un impegno e che sottraggono ulteriori energie, poiché non siamo preparati né tantomeno abituati a trattare con individui malati differenti da noi per cultura, religione e usi.

Siamo sicuri di conoscere a sufficienza la cultura, gli usi e le tradizioni di queste persone? Abbiamo chiaro come la cultura influenzi il suo modello di salute e soprattutto l’importanza della religione come elemento intimo e profondo dell’individuo che incide sui processi assistenziali? Conosciamo le rilevanti difficoltà che pone la comunicazione verbale nelle persone straniere? Tutte domande più che lecite, ma, ancora oggi, senza una risposta strutturata.

Diventa inderogabile trovare strategie per migliorare la qualità dell’inserimento di questi pazienti stranieri ricoverati, per soddisfare al meglio le necessità assistenziali e per ovviare al loro senso di isolamento sociale, che spesso risulta esso stesso causa di grave disagio e ostacolo alla relazione e all’aderenza terapeutica.

Siamo, oggi, ancora distanti da quel ruolo attivo e fortemente innovativo che ci potrebbe permettere di assistere con efficacia i pazienti stranieri, vale a dire conoscere e applicare l’assistenza transculturale, che è quella modalità di assistenza dei pazienti stranieri nel rispetto dei loro desideri, dei loro valori e della loro necessità di salute, in base a principi di qualità e di equità assistenziale. I sanitari si possono avvalere della collaborazione del mediatore culturale, utile partner dell’interazione terapeutica che diventa facilitatore della comunicazione ma anche della relazione, sempre tenendo presente che il compito del mediatore interculturale non è quello di risolvere il problema, ma, piuttosto, di educare ad affrontare in modo creativo i tipici e inevitabili equivoci e incomprensioni dell’incontro interculturale, facendoli diventare fonti di nuova conoscenza e di ampliamento delle possibilità di ciascuno.

Disclosures

Conflict of interest: The authors declare no conflict of interest.

Financial support: This research received no specific grant from any funding agency in the public, commercial, or not-for-profit.

Bibliografia

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