G Clin Nefrol Dial 2020; 32: 125-126 DOI: 10.33393/gcnd.2020.2177 POINT OF VIEW |
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Received: July 23, 2020
Accepted: July 23, 2020
Published online: August 5, 2020
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S T O P: il mondo non si può più abitare.
E’ un imperativo, un ordine.
Strade vuotate dal chiasso e dal traffico.
L’intera filiera produttiva bloccata.
Negli anni Ottanta il 2020 suonava come un numero da fantascienza.
Ora sembriamo precipitati improvvisamente dentro ad un incubo.
Un nemico invisibile, sconosciuto, semina la morte ed alimenta il terrore.
La paura ci rende disumani.
Siamo diventati tante isole alla deriva di noi stessi.
Le nostre fragilità interiori sono venute a galla. Siamo animi fatti di carta.
Vedo molti colleghi sgattaiolare veloci dal parcheggio all’ospedale.
Angeli impauriti da un nuovo giorno denso di lavoro. Andiamo ad assistere la vita accanto alla morte. Abbiamo voci nasali, filtrate dalle mascherine.
Ieratiche si ergono le tende plumbee della protezione civile.
Losanghe di terra puntellate di margherite e di muscari a ricordare che è primavera.
L’ospedale trema. Si respira la paura già dagli androni bui che portano agli spogliatoi.
Martelli pneumatici, scalpelli che ridisegnano nuove geometrie.
Nuovi spazi. Nuovi riassetti organizzativi.
La paura della morte gronda ovunque.
Le notizie sono velate di falsità. Nutrono la paura. L’uomo diventa lupo nei confronti dell’altro uomo.
L’unica corsa consentita resta quella coi carrelli al supermercato.
Partenza anticipata per gli ospedalieri. Così mentre esibiamo con orgoglio il badge davanti all’accozzaglia di gente esasperata dai divieti, riceviamo involontariamente lo stigma di untori.
La sordità della fretta. Anche ora che molti sono a casa dal lavoro.
Urgono gli abbracci, potentissimi antidoti.
L’eco della nostalgia del rumore del mondo fa affollare i balconi.
Piovono canti, applausi, ringraziamenti ai sanitari da ogni angolo del mondo.
Nuovi supereroi con costumi fatti di sacchi per l’immondizia, ma armati di tanta preparazione e dedizione.
Alcuni supereroi vestono il ruolo di malato.
L’alito della morte è contagioso. Bocche in cerca di aria, occhi vitrei. Occhi pieni di vuoto.
Il dolore che gli angeli delle corsie hanno addosso sa di indicibile.
Anche il vuoto di chi è volato via lo è.
Dai balconi piovono pure giudizi gratuiti, a volte taglienti come lame.
Ma dove sono finiti i colori?
Sembrano incrostati di grigio anche gli alberi di acacia del piccolo bosco davanti a me.
Osservo i tronchi curvi addossati l’uno all’altro. Quasi deformati in certi casi. Insieme si sostengono e formano un boschetto gradevole.
Il sole affonda oltre il groviglio di fronde di acacia.
Il cielo fa giochi di luce. Le campane della chiesa vicina suonano a lutto.
Vorrei essere bambina per vedere i guizzi di luce senza pregiudizio.
Penso che gradirei tanti palloncini colorati. Dentro a ciascuno metterei un desiderio.
Poi li lascerei volare …
Verso l’infinito…
E ora mi addormento così, al tempo del Covid-19, affollando il cielo di sogni e di palloncini colorati.
Commento editoriale
I meno giovani ricorderanno quando, negli anni Settanta, abbiamo sperimentato un primo ‘stop’ comandato, per la problematica energetica e la poca sostenibilità del nostro Paese.
Sostanzialmente diverso da questo del 2020, allora fu vissuto parzialmente in allegria: tutti fermi, tutti uguali, per risparmiare e senza grossi pericoli, con anzi la gioia di ritrovarsi nelle strade libere di mezzi per camminare, correre, giocare.
Ben diverso questo stop imposto a tutti per motivi di salute e di grande pericolo: l’epidemia di Covid-19. Primavera da incubo, che sarà ricordata da tutti ma in modo particolare dal personale sanitario che, non appena la scure della crisi finanziaria indotta dal nemico invisibile prenderà il sopravvento, rischia di non essere più sostenuto. Questione di mesi. Una primavera incrostata di grigio, ove troppe bocche sono state in cerca di aria, come scrive Valentina Dorigo, infermiera del Centro Dialisi dell’Ospedale di Piove di Sacco (PD).