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G Clin Nefrol Dial 2020; 32: 97-98

DOI: 10.33393/gcnd.2020.2155

LA VOCE DEI PAZIENTI

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Notte a ritmo di musica

Indirizzo per la corrispondenza:
AIRP Associazione Italiana Rene Policistico
Via Bazzini 2, 20131 Milano - Italia
Segreteria.airp@renepolicistico.it

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È notte. Tutti dormono. Il blu della luna piena illumina le stanze e l’aria rinfresca gli ambienti. C’è quiete, calma. Silenzio assoluto. E io sono qui. Qui sulla terrazza a osservare questo splendido paesaggio della città dormiente. La musica come una dolce carezza mi coccola e mi culla. È notte. E a farmi compagnia c’è l’altra parte di me. Non vuole dormire e tiene sveglia anche me. Continua a tamburellare contro il mio corpo come se fossi uno strumento musicale. I suoni che produce hanno un ritmo e una melodia irregolari fra loro, ma, soprattutto, sono stonati.

Ci sono alti e bassi che non seguono un filo logico, sembrano più un’improvvisazione. Non hanno musicalità. Non si può definire musica questa canzone, si tratta più di uno scarabocchio. Non vuole smettere, sembra divertita. Non mi piace questo genere, non voglio più ascoltarlo. Ma non smette e più lo sento e più mi agito perché non fa per me. Preferivo sentire di più il canto del mio cuore, così profondo e poetico. [...]

Mi hanno comunicato che dovrò inserire un nuovo brano nella mia playlist, si intitola “dolore cronico”. Il titolo rispecchia il significato della canzone e dovrò ascoltarlo in loop, di continuo.

Mi hanno comunicato che dovrò accettarlo, anche se non lo preferivo, perché non ci sono altri brani al momento. Sarà la mia ombra questa canzone, la mia compagna di viaggio che mi accompagnerà in ogni mio respiro, in ogni mio battito di ciglia, in ogni mio battito di cuore. E non posso cancellarla dalla mia vita, non sparirà mai. D’altronde, è parte di me. Non vedo l’ora di aggiungere nuovi brani al mio album, vorrei che fossero più belli di questo. Vorrei essere felice di ascoltarli, vorrei che rappresentino le hit più belle della mia vita. Vorrei che mi emozionino, che mi facciano esplodere il cuore di gioia, che mi ricoprano di brividi talmente siano canzoni pure. Ma, al momento, posso solo sperare, ora devo vivermi questa nuova condizione.

Non riesco ad accettarla, è più forte di me. Sono sempre stata una guerriera, ho sempre affrontato e superato con coraggio ogni esperienza. Le grido di smettere di suonare perché un concerto può durare qualche ora dopodiché finisce e, quindi, anche lei non può continuare a cantare come se non ci fosse un domani. Ho urlato talmente tanto che non ho più voce. Lei non si è mai stancata, non è che ne ha approfittato per avere anche un coro nella sua orchestra? Sono arrivate le lacrime, queste non hanno voce e lei non mi sente. E continua a suonare. Non ne posso più, vorrei che questo incubo fosse solo un sogno. E invece no, non è così. Mi ha tolto la voce per darmi le lacrime che mi toglieranno le forze. È tutta una catena. Quale sarà la sua prossima mossa? Quale altro suono avrà la prossima nota? Di cos’altro vorrà privarmi questa musicista?

Resta un dubbio. Un dubbio che sarà svelato con il trascorrere di questi giorni infiniti. È solo attesa e incertezza. Ma una cosa la voglio mettere in chiaro: il sorriso non se lo porterà via con sé. Il sorriso sarà la MIA nota più bella che spetta solo a me suonare!

(Laura R. - Milano)

Un dono prezioso… da custodire al meglio!

È passato un anno (gennaio 2019) da quel fatidico giorno in cui inesorabilmente mi fu detto che ormai mancava poco tempo (dopo l’estate o anche prima) dall’inizio della terapia sostitutiva: la DIALISI. Questo termine mi angosciava da anni, anche perché conoscevo molto bene di cosa si trattasse, avendo avuto in famiglia due persone in emodialisi.

Nella mia ingenuità o, meglio, nella mia speranza, immaginavo di andare in dialisi dopo i 60 anni (ne avevo 56). Non so perché mi ero prefissata nella mente questo traguardo, ma gli esami erano stazionari e pensavo di farcela. Non dimenticherò mai lo sgomento nello sguardo di mio marito che si intrecciava ai miei occhi in lacrime.

Naturalmente ci è stato detto che l’alternativa era il trapianto, che, se fatto da donatore vivente, avrebbe evitato la terapia sostitutiva. Prontamente mio marito si è proposto senza alcuna esitazione, ma io ero determinata a rifiutare il suo sacrificio: ero terrorizzata in quanto avevo assistito in famiglia a un trapianto da vivente non andato a buon fine già durante l’intervento.

Nel mese di aprile ci è stato detto che ormai ero giunta alla terapia e che avrei fatto la peritoneale: il ricovero per l’intervento per mettere il catetere sarebbe avvenuto a metà giugno. Il panico ormai si era impossessato di me, perché pensavo che avrei avuto ancora un po’ di mesi per elaborare il tutto. In fondo la mia creatinina era a 4,5, gli altri valori erano ancora abbastanza buoni, mi sentivo piuttosto bene e non riuscivo a rassegnarmi a tanta fretta. Rispettavo la dieta, facevo tutto quello che mi veniva detto... Intanto, in famiglia, si discuteva della possibilità di riprendere in considerazione la donazione da parte di mio marito, ma io non ne volevo neanche sentir parlare.

Un giorno, in un momento di confronto con mia figlia, mi ha detto delle parole che mi hanno colpito molto e oggi questo concetto mi accompagna e mi accompagnerà per il mio futuro. Mia figlia mi ha fatto osservare che ogni mia scelta inesorabilmente avrebbe coinvolto chi mi stava accanto (lei, mio marito, l’altro figlio) e tutti avrebbero vissuto con me ogni mia sofferenza. Ho riflettuto molto su queste sue parole.

Fino ad allora avevo pensato egoisticamente che il mio problema era mio e che lo avrei gestito io. Ho sempre cercato di proteggere i miei figli dalle angosce che questa malattia comporta e fino ad allora ci ero riuscita piuttosto bene. Ma ora non sarebbe stato più così: il mio dramma sarebbe stato anche il loro. Mi ha detto, poi, che non dovevo precludermi la possibilità di provare, visto che il padre si era così generosamente proposto: anzi, si proponeva lei stessa di donarmelo!!! Ormai avevo pochissimo tempo per riflettere e così ho deciso di accettare il rene di mio marito.

Quando ho comunicato al nefrologo la mia scelta (eravamo già a maggio inoltrato) mi è stato riferito che, per fare tutti i controlli propedeutici al trapianto, ci volevano parecchi mesi, che avrei dovuto pensarci prima, che i tempi erano stretti, che avrei dovuto comunque sottopormi a nefrectomia e che, quindi, nel frattempo, la peritoneale era necessaria. Inoltre, ci è stato detto che, una volta presa la decisione per la donazione, non era possibile ripensarci (informazione non vera, assolutamente). Accidenti, speravo di evitare tutto questo e mi ritrovavo al punto di partenza.

Che fare? Che alternative avevo per accorciare i tempi ed evitare tutto questo? Avevo fiducia nel medico che mi seguiva e pensavo che non potevo che fare quello che mi dicevano. Mancavano ormai quindici giorni all’inserimento del catetere peritoneale, quando un altro ospedale (che avevo contattato per capire se c’era un’altra possibilità), mi ha proposto un ricovero di cinque giorni, con mio marito, per effettuare tutti i controlli. Abbiamo preso al volo questa opportunità. E devo dire che non avrei mai pensato di avere questa fortuna: non solo abbiamo effettuato i controlli di routine, ma mi è stato riferito che non occorreva effettuare la nefrectomia, visto che i miei reni non erano così ingombranti e che, considerando l’andamento discreto del mio stato di salute, ce l’avremmo fatta a fare il trapianto senza andare in dialisi. Un miracolo. Mi dicevo che lassù avevo qualcuno che mi stava proteggendo. Avevo ricominciato a sperare, anche se, dentro di me, ero costantemente in apprensione per i risultati degli esami sia miei che di mio marito.

Durante i mesi di preparazione al trapianto ero comunque ancora molto combattuta: avevo fatto la scelta giusta? Era giusto privare mio marito di un rene per evitare la mia sofferenza? In fondo, mi dicevo, potevo mettermi in lista e attendere un rene da cadavere. Alternavo momenti di certezza e sicurezza a momenti di grande sconforto, che sfociavano in panico. Sono arrivata a sperare addirittura di non essere compatibile, così il grande gesto di mio marito sarebbe rimasto tale e io non avrei avuto la responsabilità di aver fatto questa scelta “sconsiderata”. Da parte di mio marito mai un ripensamento, mai un’incertezza. Paradossalmente invidiavo questa sua sicurezza. I giorni passavano e, così, i mesi e il funzionamento dei miei reni peggiorava, ma io stavo ancora benino. Ed eccoci arrivati a fine novembre, con il trapianto programmato.

Eravamo preoccupati, terrorizzati, ma anche molto speranzosi. La sera prima del trapianto, in ospedale, ho detto a mio marito che era ancora in tempo a ripensarci. Il mio amore per lui non sarebbe cambiato. Avrei capito. Ma lui è stato irremovibile.

L’intervento è andato molto bene, da manuale, ci ha detto il chirurgo. Dopo tre giorni mio marito è stato dimesso. Io sono tornata a casa dopo solo sette giorni. Sono passati quasi due mesi dal trapianto. Per ora sta andando tutto bene. So che sono soggetta a potenziali infezioni per l’assunzione degli immunosoppressori, ma cerco di vivere giorno per giorno come una conquista. E poi mi basta vedere la serenità negli occhi della mia famiglia per avere forza e tenacia.

So che ho ricevuto un dono prezioso e che ho la responsabilità di custodirlo al meglio. Non solo per me, ma per il mio donatore: il mio coraggioso eroe.

(Rita V. - Milano)

Torneremo a galla

Dicono che tutta la forza e la determinazione sono già dentro di noi e che bastano per affrontare tutti gli ostacoli che ci si pongono davanti.

Invece, viene un momento, nella nostra vita, in cui si sente il bisogno di spegnersi un attimo. Diciamo resettare la propria vita come un computer vecchio e intasato. Allora, si comincia a guardarsi dentro per scovare qualche motivo per riprendere in mano la propria vita e scegliere di ripartire, a testa alta, magari con un sorriso stampato sulla faccia.

Ma i pensieri che ti assalgono sono troppi e confusi, ti confondono e limitano il tuo ragionare. Proviamo a uscire da questo pantano che ci siamo creati da soli … ma ci accorgiamo che alle nostre gambe c’è sempre qualcosa di agganciato, che pesa, che ci trascina e che ci rende statici.

Forse toccare il fondo non fa del tutto male, se ci permette di apprezzare di più la bellezza del cielo quando torniamo a galla.

Perché torneremo a galla. Perché, di sicuro, c’è sempre una mano pronta a tendersi verso di noi. Noi l’aspettiamo.

(Antonio M. - Napoli)