AboutOpen | 2020; 7(1): 30–34 ISSN 2465-2628 | DOI: 10.33393/abtpn.2020.2117 EDITORIAL |
Trieste culla dell’attenzione alla persona: un inquadramento storico e culturale del nursing abilitante e di iniziativa, terreno fertile per lo sviluppo dell’Engagement
The city of Trieste as the center of the attention to the person: an historical and cultural framework of the enabling nursing, a fertile ground for the development of Engagement
The Author of the article summarizes the core aspects and theoretical assumptions of the “Enabling Approach” that has characterized the clinical practice of the ASUGI for years. The model has proved to be effective in positively influencing the quality of life of individuals assisted and in reducing the number of hospitalisations. The model affirms the need to establish relations of a mainly symmetrical nature with the individuals assisted and their caregivers. On the contrary, according to this approach, proposing a “top-down” asymmetric relationship with the patient means responding to an unconscious health professional’s need of power over the patient rather than to the patient’s real needs. This aspect, in the perspective of the Author, lies at the basis of the active involvement (Engagement) of patients in their health care processes.
Keywords: Enabling Approach, Nursing, Patient Engagement, Quality of life
Received: April 8, 2020
Accepted: April 17, 2020
Published online: August 31, 2020
© 2020 The Authors. This article is published by AboutScience and licensed under Creative Commons Attribution-NonCommercial 4.0 International (CC BY-NC 4.0). Any commercial use is not permitted and is subject to Publisher’s permissions. Full information is available at www.aboutscience.eu.
La democrazia è “dedizione alla cosa pubblica e disponibilità a destinarvi le proprie energie e a mettere in comune una parte delle proprie risorse” (G. Zagrebelsky)
Negli anni Novanta, nei servizi dell’ex Azienda per i Servizi Sanitari n. 1 “Triestina”, ha preso forma il modello del nursing abilitante (1) e di iniziativa conosciuto, nel Paese e all’estero in primis, per aver messo al bando la contenzione (nel 2013, in forma solenne, il Sindaco della Città ha dichiarato Trieste libera da contenzione). Su iniziativa dell’Autrice del presente Editoriale, l’ASUGI ha l’omologo sito (https://triesteliberadacontenzione.wordpress.com/), in collaborazione con l’Ordine dei Medici e degli Odontoiatri di Trieste.
Grazie a questa attività la nostra Azienda ha ottenuto il prestigioso riconoscimento “Premio Alesini” di Cittadinanza attiva e del Tribunale per i Diritti del Malato nel 2010. Il modello è divenuto un punto di riferimento nel nostro Paese per la realizzazione di stage teorico-pratici finalizzati a promuovere la messa al bando delle pratiche di contenzione e gli infermieri triestini sono, da allora, chiamati in qualità di formatori in molte Università e Aziende del Paese e anche all’Estero.
Eliminare la contenzione è stato l’assioma del modello: è, infatti, a parere dell’Autrice, un ossimoro predicare l’Evidence Based Nursing e l’Evidence Based Practice, ma contenere meccanicamente e farmacologicamente i malati. Il modello si è rivelato efficace anche nell’incidere positivamente sulla qualità di vita dei cittadini e sulla riduzione dei ricoveri e, in particolare, di quelli ripetuti.
Ciò premesso, l’idea del nursing abilitante (2) trova le sue radici culturali nella grande opera di deistituzionalizzazione del malato, condotta negli anni Settanta da Franco Basaglia e Franco Rotelli nel campo della salute mentale a Trieste. A causa della morte prematura di Basaglia, è stato Rotelli, aiutato dal Presidente della Provincia Michele Zanetti, a chiudere il manicomio e ad avviare un’esperienza di integrazione dei servizi di salute mentale con le risorse del territorio. Da questa esperienza derivano i presupposti del nursing abilitante e di iniziativa o proattivo che dir si voglia.
Il modello si avvale della “presa in carico” dell’assistito e dei suoi caregiver, se necessario anche dei vicini di casa o del datore di lavoro, come veri referenti del processo di riabilitazione/abilitazione. È un modello abilitante perché il contratto sociale di intervento sposa la logica tesa ad assumersi le problematiche degli assistiti, con l’obiettivo di restituire loro il prima possibile le redini dell’autogestione, rinforzando l’assunzione di un ruolo da protagonista anziché la dipendenza nella gestione della malattia. In altre parole, il nursing abilitante si contrappone alle pratiche infermieristiche sostitutive e, per loro stessa natura, disabilitanti. Un esempio pratico: è disabilitante raccomandare all’operatore sociosanitario di imboccare o pettinare il malato se il malato può mangiare e pettinarsi da solo. Le conseguenze della sindrome da immobilizzazione sono il risultato di un nursing disabilitante e non dovremmo chiamarla sindrome, perché il termine indica un insieme di sintomi e segni clinici che riguardano una malattia, ma l’immobilizzazione è una malattia? Certo che no!
Una buona parte dei ricoverati è lucida e sarebbe in grado di continuare ad autogestire la terapia come faceva a casa, ma noi ci sostituiamo a questa funzione veicolando il messaggio depressivo e disabilitante “ora sei incapace di farlo”.
Il modello, invece, esclude la possibilità di sostituirsi alle funzioni del malato/assistito; se il malato mangia lentamente, se si pettina lentamente e se cammina lentamente, è bene che nessuno si sostituisca a queste funzioni, che, invece, vanno rinforzate e, nel farlo, ci collochiamo nell’area della riabilitazione, nel senso che riattiviamo/rinforziamo attività che già sapeva svolgere. Quando, per esempio, gli insegniamo ad autosomministrarsi l’insulina o ad autogestirsi e la rilevazione del Tempo di Quick con il coagulometro portatile in qualsiasi luogo egli si trovi oppure gli insegniamo come autocateterizzarsi, ebbene in questi casi siamo nell’area dell’abilitazione ovvero lo abilitiamo a fare qualcosa che non sapeva fare per consentirgli il massimo dell’autonomia possibile.
L’altro assioma del modello è appunto assicurare il massimo dell’autonomia possibile liberandoci dall’idea che insegnare al paziente le pratiche normalmente svolte dall’infermiere possa nuocere alla crescita della professione. È esattamente il contrario, più noi siamo complianti con le esigenze di autonomia delle persone e più siamo autorevoli ed evolviamo positivamente nella nostra professione.
In tal senso, è necessario cambiare anche le parole utilizzate, per esempio il titolo “forum della non autosufficienza” mette l’accento su ciò che non c’è anziché su ciò che potrebbe essere, se si capovolgesse il paradigma titolando “forum dell’autonomia possibile”.
C’è, poi, il diffuso vezzo che attraversa i servizi di definire “residue” le funzioni delle persone in difficoltà, ma a nessuno piace che alle proprie funzioni sia assegnato un disvalore; in questa logica depressiva ogni campione sportivo potrebbe a buon diritto definire “residue” le funzioni di chi campione non è.
Nel campo della salute mentale, il nursing si cimenta anche nella riabilitazione o nell’abilitazione al lavoro, in rete con i servizi sociali. Questa attività risponde al bisogno di autonomia economica, perché è evidente che, senza reddito, non ci possa essere neppure libertà. Essa risponde a quanto sancito dall’articolo 1 della Costituzione “la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro” e dall’articolo 2 quando si parla di “… doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” e dall’articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale… È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona…”.
La Repubblica è costituita in primis dai cittadini: dunque, il lavoro di rete è uno strumento di inveramento di diritti fondamentali dell’uomo e di promozione culturale dei medesimi e, in molti casi, il pretesto per apportare positive innovazioni organizzative nei servizi e nei luoghi di lavoro.
Nelle microaree triestine, gli infermieri esprimono al massimo la proattività nel lavoro di rete: operano come attivatori di risorse sociali, economiche, istituzionali e non, per rammendare il tessuto sociale e prevenire disabilità, esclusione e malattie e contrastare la violenza.
In ogni contesto, il nursing abilitante attiva/riattiva funzioni e risorse per promuovere il massimo dell’autonomia possibile o per assicurare una morte dignitosa. È abilitante perché si interroga su come realizzare follow-up che riducano drasticamente le riacutizzazioni e perché addestra i malati e i caregiver sulle tecniche per liberarli dalla dipendenza del servizio e della prestazione. È un modello generoso che permette meglio di affrontare le criticità delle malattie croniche di una popolazione che invecchia velocemente ed è in particolar modo adatto a svolgere meglio il nursing di famiglia e comunità.
A Trieste si sperimenta, dal 2002, l’integrazione del nursing territoriale con quello ospedaliero, in collaborazione con fisioterapisti, medici, assistenti sociali, educatori e medici di medicina generale. Qui è nato l’infermiere di famiglia per rispondere efficacemente ai bisogni correlati alle cronicità di una popolazione che invecchia: in tali contesti, si può, infatti, avere l’infermiere di famiglia prestazionale, che accede al domicilio dei malati per effettuare la prestazione, oppure l’infermiere prende in carico la persona ed è, prima di tutto, un infermiere di comunità, vale a dire che conosce le risorse istituzionali/ortodosse ma anche quelle eterodosse di zona e sa come attivarle per il suo malato a domicilio e i caregiver e sa come realizzare la continuità assistenziale tra ospedale e territorio e i servizi del comune; solo con le competenze di “attivatore di rete”, unitamente a quelle clinico-assistenziali, può essere un infermiere di famiglia abilitante. In altre parole, l’infermiere di comunità e l’infermiere di famiglia devono essere la stessa persona: sono i due lati della stessa medaglia (3).
Il modello del nursing abilitante nel tempo diventa inevitabilmente un modello di iniziativa (4), caratterizzato da un professionista che si adopera per intercettare precocemente il rischio e/o la possibilità che il problema di un cittadino (malato o sano che sia) o di una collettività si verifichi.
Si cerca di mettere al bando l’attesa. Esso si colloca all’interno del movimento culturale internazionale che da decenni predica la necessità che la sanità si emancipi dall’attesa e diventi una sanità di iniziativa. Essere di iniziativa significa saper sviluppare processi di follow-up che evitino le riacutizzazioni; nel caso in cui il cittadino sbagli interlocutore in sanità (ovvero acceda a un servizio non conforme alle sue necessità), bisogna accoglierlo comunque, orientarlo e accompagnarlo al servizio di pertinenza; significa pensare a come noi siamo complianti con il malato o il cittadino, prima di chiedersi se lui lo è con la terapia.
L’emancipazione dall’attesa è un processo mentale/culturale difficile e lento, perché la sanità è, in assoluto, l’azienda più complessa che ci sia. Essa eroga servizi a elevato tasso di innovazione e cambiamento; le risposte devono essere aderenti a necessità collettive, ma anche personalizzate; le relazioni con i cittadini sono intense e a elevata discrezionalità operativa; le professionalità sono innumerevoli e altamente specialistiche, di carattere tecnico scientifico e, anche, umanistico. La complessità e la presenza di inevitabili lobby professionali portano con sé il rischio di conflitti intra- e interprofessionali e climi organizzativi pesanti, se non pessimi. A questi fattori di rischio si aggiungono fattori di integrazione con il privato accreditato e convenzionato e i vincoli perenni del bilancio. In tale contesto, promuovere un processo culturale di emancipazione dall’attesa richiede, come premessa, la realizzazione di un buon clima organizzativo. Il personale di assistenza rappresenta la metà della dotazione della sanità e, sul Direttore infermieristico, pesa, pertanto, una buona quota della responsabilità inerente proprio la qualità del clima organizzativo. Ciò premesso, sul clima c’è una vasta letteratura che concorda sull’assunto secondo il quale i conflitti nelle organizzazioni sono inevitabili, ma, se gestiti da una leadership democratica, sono una vera ricchezza che può realizzare attività complesse e creative perché costituita da contributi diversi.
Già negli anni Settanta, l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomandava di promuovere gli ideali della democrazia e la sanità di iniziativa. Siamo, dunque, invitati a uscire dai nostri specialismi, poiché il nostro sapere è poca cosa rispetto alle necessità se non si intreccia con i saperi degli altri. La sanità di iniziativa ci impone questo e anche di guarire dalla “sindrome radar”, per cui il malato appare, è curato, dimesso e, poi, scompare. Laddove, però, le culture organizzative sono caratterizzate da gerarchie autoritarie, il personale si focalizza sulla competizione e non sulla collaborazione/integrazione; le gerarchie promuovono e premiano l’etica dell’obbedienza anziché l’etica della responsabilità che sostiene la proattività/l’iniziativa. Queste organizzazioni sono a elevato rischio di insorgenza di conflitti, con ripercussioni negative notevoli sulla salute dei lavoratori, ma anche sui bilanci.
Dunque, porsi l’obiettivo di creare un buon clima non significa “soffocare” i conflitti e/o confidare nella loro assenza, bensì saperli gestire e usare come una grande risorsa e, contestualmente, promuovere l’etica delle responsabilità.
Pertanto, il modello triestino del nursing abilitante e di iniziativa è finalizzato, in primis, a promuovere “friendly nursing workplaces”. L’anima del modello è, così, sintetizzabile: “… Se noi prendiamo l’uomo per quello che è, lo rendiamo peggiore di come è; se, invece, lo prendiamo per quello che dovrebbe essere, lo facciamo diventare quello che può veramente essere” (W. Goethe).
I valori sono esplicitati dalla metafora slogan del modello: “La sanità non deve essere una piramide, ma un tempio greco. Le parole chiave sono: formazione continua, trasparenza, ascolto, critica, interdisciplinarietà, creatività e cambiamento”.
Incide positivamente sul clima l’attenzione trasparente allo sviluppo della carriera, l’organizzazione delle attività ponendo attenzione a ridurre il carico di lavoro fisico e psichico, prevedere nei capitolati degli appalti tutto ciò di cui il personale e, per sillogismo, anche il malato hanno bisogno e diritto di avere e così via. Ma non basta: è, altresì, necessario offrire luoghi e spazi di partecipazione dove il personale possa sentirsi libero di esprime la critica. Potenti strumenti di miglioramento del clima sono la sperimentazione e/o le ricerche/intervento. Esse distolgono l’attenzione dai conflitti, mentre aiutano i gruppi a comprendere le cause di un problema, a trovare soluzioni creative e ad appassionarsi al lavoro.
All’interno di questo contesto culturale, le cui radici sono la riforma psichiatrica, nel 2005 nascono a Trieste le prime dieci microaree, ed è proprio come referente di microarea che l’infermiere esprime al meglio il modello del nursing abilitante e di iniziativa.
Così descrive il suo lavoro di infermiera di comunità nella microarea di San Giovanni la collega Ester Olivo: “Da cinque anni attraverso le strade di questo quartiere e le vite delle persone, entrando nelle loro case e nei loro luoghi. Mi occupo di persone che hanno sofferto per patologie, povertà, discriminazione o abbandoni. Il quartiere è povero, così come lo sono i quartieri delle altre microaree della città. Luoghi dove sorgono complessi di alloggi popolari e dove, come forse è naturale, sono condensate tante storie di vita che non hanno avuto sbocco altrove. Altissimo è il tasso di disoccupazione nei pochi giovani che compongono questo quadro e i molti anziani spesso fanno fatica a mettere insieme il pasto quotidiano. La solitudine permea questi appartamenti spesso fatiscenti, dove le persone, dal vissuto ricco di percorsi ma scarno di bellezza, allietano gli occhi con i fiori raccolti nelle aiuole, che, rigogliosi e colorati, abbelliscono questo antico colle triestino. Una parte della popolazione è straniera e sperimenta un nuovo modo di vivere in una società che fatica ad accoglierla. Sono persone arrivate soprattutto dai Balcani e dall’Europa dell’Est e portano con sé racconti di guerre e di fughe che hanno fatto crescere culturalmente ed emotivamente la comunità della microarea, alimentando la solidarietà che si esprime in azioni quotidiane. Ogni persona con la propria storia ha regalato fili colorati, a volte spezzati o aggrovigliati, utili a realizzare l’arazzo complesso e bellissimo che è la comunità. Quando mi fu dato questo incarico, mi sentii orgogliosa, ma subito compresi che sarebbe stato impossibile occuparmi da sola della salute di duemila persone. Prima avevo lavorato per lungo tempo nel Dipartimento di Salute Mentale, che mi aveva fornito strumenti utili alla lettura dei contesti che portano ad ammalarsi. Solo promuovendo la partecipazione alla vita della collettività e azioni di solidarietà si possono prevenire le cadute non solo fisiche, ma anche sociali, di un contesto così difficile e complesso. Tra le tante iniziative, sociali e culturali, realizzate per includere e non escludere, non ultima la mensa quotidiana di qualità, che si imbastisce con il contributo della merce fornita dei negoziati della zona e che è curata da un cuoco in pensione.
Bisogna, inoltre, annoverare le tante azioni realizzate per mettere al bando la Violenza. La Violenza in un contesto fragile è presente in vari modi e a vari livelli e va smascherata per evitare che l’ottimo lavoro organizzativo e tecnico frani e rallenti il processo di emancipazione sociale dei componenti della piccola comunità. L’abbiamo affrontata in tanti modi, anche con letture scelte, discussioni e confronti, storie e spaccati di vita trascorsa, attraverso le fotografie delle tante guerre e delle fughe e delle deportazioni. Abbiamo discusso della violenza che abita anche nelle nostre case e nei nostri quartieri, così attuale quella sulle donne. La nostra microarea ha avviato il progetto (ormai quinquennale) “IO NO”, che snoda il suo impegno su ogni forma di violenza, oltre a quella sulle donne. Il progetto è condiviso da tutte le microaree triestine, da numerose associazioni, dalle scuole, dalle forze dell’ordine e dal personale dell’Azienda. Negli anni, gli attori hanno realizzato un manufatto grafico di ben 230 metri, composto da manifesti colorati e dipinti su tela cerata e assemblati tra loro. Il lungo serpente che si allunga di anno in anno a novembre si esibisce per le vie della città. L’assemblaggio dei manifesti è realizzato con nastro rosso che rappresenta il sangue, ma anche l’amore. Cosicché quest’opera (che forse farebbe invidia a Picasso) rappresenta il patto di solidarietà delle varie comunità.
Per quanto riguarda la violenza sulla donna, grazie alla collaborazione di esperti del settore, si cercano soluzioni per guarire dalla violenza espressa, a partire dal lavoro iniziale di microarea fino all’accompagnamento dai professionisti che prenderanno in carico e in cura l’uomo violento. La violenza si contrasta anche con la bellezza e il decoro. Un habitat di vita gradevole aiuta la persona a essere più disponibile e tollerante, cosicché la microarea di San Giovanni (con artisti veri o improvvisati) ha realizzato bellissimi murales nelle case più tristi e malconce. Sono state organizzate raccolte di vestiario ed è stato creato un atelier per il riconfezionamento degli abiti da riproporre in particolare alle vittime delle guerre.
La bellezza viene espressa anche attraverso oggetti costruiti a più mani, come i meravigliosi tappeti recuperati, ritessuti e ricamati con perle e cristalli e riconsegnati a cittadini spesso costretti a disertare la bellezza. C’è il recupero di oggetti che diventano splendida bigiotteria. C’è anche l’orto che serve agli abitanti e al cuoco per la mensa quotidiana. Il terreno sterile e spugnoso è lavorato e coltivato dai nuovi migranti. Il pranzo quotidiano è aperto a tutti e nessuno deve chiedere “per favore” per poter mangiare ogni giorno; è un modo per stare insieme e chi può contribuisce ad allestirlo. Per il vecchio, vivere in una microarea significa ridurre drasticamente il rischio di istituzionalizzazione e si rafforza la presa in carico dell’anziano da parte della collettività.
Ma, nell’organizzare i laboratori d’arte e di tessitura, la cucina, il manufatto di 230 metri, le letture, l’orto e il pranzo, ci stanno anche l’attività di monitoraggio della glicemia, la rilevazione della pressione arteriosa e l’effettuazione delle medicazioni delle ulcere e il raccordo con i medici di famiglia o con i servizi e i reparti in caso di ricovero del cittadino di microarea è fondamentale. Essere infermiere di microarea obbliga a una ricerca costante di azioni proattive e solidali, a un rimaneggiamento e all’attivazione di risorse umane e fisiche e a un processo reale di inveramento dei diritti sociali; di fatto si agisce sui veri determinanti della salute”.
Si evince anche, dalla narrazione di Ester, che il modello propone rapporti prevalentemente simmetrici con il cittadino e i suoi caregiver, perché è necessario essere complianti con le loro esigenze prima di porci il problema se loro lo sono con la terapia.
Viceversa, tutte le volte che proponiamo un rapporto asimmetrico “top-down” dobbiamo essere consapevoli che rispondiamo a nostri bisogni più o meno inconsci di potere su di loro anziché alle loro necessità; siamo, ovviamente, nel campo degli aspetti psicologici/relazionali e non in quello delle prestazioni concrete e il primo ha effetti sul secondo. Questo argomento è assai poco dibattuto e sviscerato eppure sta alla base del coinvolgimento attivo (Engagement) dei malati nei loro processi di cura.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, già nel 2002, infatti, raccomandava il coinvolgimento attivo dei cittadini nella gestione dei propri percorsi di cura come strategia da perseguire per ottimizzare l’uso delle risorse (WHO. The World Health Report 2002: Reducing Risks, Promoting Healthy Life. Geneva, World Health Organization, 2002). Ma non può realizzarsi alcun coinvolgimento, se i rapporti interpersonali tra noi e i malati sono caratterizzati dall’asimmetria relazionale. Questo è un argomento che il nursing triestino nel 2015 ha iniziato a mettere nella sua agenda, chiedendo una supervisione a enti esperti.
Dal momento che EngageMindsHub centro di ricerca della Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha sviluppato qualificate attività di ricerca e formazione e interventi a favore dell’attivazione del malato e del suo caregiver, in vari contesti di cura ospedalieri e territoriali, la nostra Azienda ha stipulato una Convenzione bilaterale, di durata quadriennale, con la citata Università (Decreto 199 del 21 aprile 2016) per lo svolgimento di attività scientifiche e formative aventi per oggetto il ruolo degli infermieri, ma anche quello di altri operatori sanitari, nel coinvolgimento attivo del malato e dei suoi caregiver.
Nell’ambito di questa convenzione, si sono sviluppate numerose iniziative formative che hanno consentito l’adozione (in alcuni servizi aziendali, territoriali e ospedalieri) di strumenti di misurazione e di promozione del coinvolgimento attivo del malato.
I miei collaboratori hanno contribuito alla stesura dei documenti propedeutici alla prima conferenza di consenso italiana che ha emanato le raccomandazioni per la promozione del Patient Engagement. Le raccomandazioni (5):
- stabiliscono di mantenere la dizione “Engagement” nei circuiti dedicati ai professionisti della salute, per dialogare meglio con la letteratura scientifica di riferimento e con i documenti di indirizzo, e di adottare, invece, una traduzione italiana del termine, come, per esempio, “coinvolgimento attivo”, nei contesti clinici ed educativi, per renderla comprensibile ai malati e ai loro caregiver;
- evidenziano la necessità di sensibilizzare e sviluppare competenze dei professionisti della salute e del sistema sociosanitario relativamente al concetto di Engagement.
Abbiamo, così, costituito una Commissione aziendale (Decreto 126/2018 – Costituzione Commissione di ASUGI per la promozione dell’Engagement), che ha la responsabilità di:
a. promuovere la cultura dell’Engagement all’interno di ASUGI, attraverso l’organizzazione di iniziative di sensibilizzazione e di formazione;
b. monitorare la diffusione e i risultati collegati all’adozione di strumenti di misurazione e di promozione dell’Engagement;
c. collaborare con l’EngageMindsHub per le attività indicate nella Convenzione bilaterale;
d. avviare rapporti di collaborazione con eventuali altre istituzioni impegnate nella promozione dell’Engagement;
e. valorizzare e diffondere le esperienze maturate e i risultati raggiunti.
Si è costituito, inoltre, un gruppo di referenti aziendali che ha perfezionato la propria formazione su questo tema, contribuendo a diffondere gli strumenti di misurazione e promozione dell’Engagement (6) del malato e dei suoi caregiver.
Molto è stato fatto, ma molto ancora è necessario fare per migliorare i rapporti tra noi, i nostri malati e i caregiver ed essere, così, maggiormente efficaci nel promuovere la salute.
Per concludere, mi sostiene sull’esportabilità del modello la prefazione di Roberto Vaccani al mio saggio “Nursing abilitante. L’arte del compromettersi con la presa in carico”, di cui riporto qui un breve stralcio: “L’esperienza di assistenza infermieristica dell’Azienda per i Servizi Sanitari n. 1 “Triestina” si presta come metafora, o modello di trasferibilità, per diverse ragioni. In primo luogo, per una costanza strategica di progetto e di pratica operativa, radicati. In secondo luogo, per una rigorosa azione di monitoraggio diffuso degli aspetti logici, metodologici, organizzativi e normativi che la ispirano. La durata nel tempo dell’esperienza ha permesso a tutti i soggetti coinvolti di sperimentare, validare e consolidare un processo di costante dialettica, che lega il progetto al fare quotidiano, il fare alla verifica dei risultati, la verifica alla ridefinizione e all’aggiustamento del progetto, fino al consolidamento di una prassi operativa che poggia su un forte e condiviso costrutto logico. Il mantenimento nel tempo di un saldo legame tra strategia e azione ha facilitato il transito dell’esperienza di assistenza infermieristica dalla fase innovativa e sperimentale a quella della maturità e del consolidamento. La costante regia di governo che si è mossa tra il pensato e l’agito organizzativo ha permesso di storicizzare e razionalizzare un modello di intervento che possiede solide basi di riproducibilità. I modelli di intervento nel sociale sono esposti a innumerevoli richieste di personalizzazione e di flessibilità territoriale e situazionale e, come tali, non possono essere riprodotti nei dettagli operativi, ma possono esserlo nella struttura progettuale e nelle traiettorie d’azione che li ispirano. Per tale ragione, questi modelli devono reggersi su forti presupposti logici e potersi muovere all’interno di chiare cornici metodologiche, ancorati a Linee Guida che ne orientano le prassi vincenti” (7).
Disclosures
Conflict of interest: The author declares no conflict of interest.
Financial support: This research received no specific grant from any funding agency in the public, commercial, or not-for-profit sectors.
Bibliografia
- 1. Mislej M, Bicego L. Assistenza e diritti. Critica alla contenzione e alle cattive pratiche. Roma, Carocci Faber. 2007:26.
- 2. Mislej M. Nursing abilitante. L’arte del compromettersi con la presa in carico. Roma, Carocci Faber. 2006:31-155.
- 3. Mislej M, Paoletti F. L’infermiere di famiglia e di comunità. RN, Maggioli. 2008:89-92.
- 4. Mislej M. Democrazia e nursing. Promuovere una sanità e un nursing di iniziativa. RN, Maggioli. 2010:7-14.
- 5. Graffigna G, Barello S, Riva G, et al. Promozione del Patient Engagement in ambito clinico-assistenziale per le malattie croniche: raccomandazioni dalla prima conferenza di consenso italiana. Recenti Progressi in Medicina. 2017;108:441.
- 6. Graffigna G, Barello S, Bonanomi A, et al. Measuring Patient Engagement: development and psychometric properties of the Patient Health Engagement (PHE) Scale. Front Psychol. 2015;6:274.
- 7. Mislej M. Nursing abilitante. L’arte del compromettersi con la presa in carico. Roma, Carocci Faber. 2006:14.